Storia di un disastro

di Sergio Materia

Questo scritto non vuole essere un’invettiva amara da parte di chi ha inutilmente
sperato nei buoni frutti delle proprie aspettative e delle proprie battaglie. E’, o
vorrebbe essere, l’esatto contrario: il tentativo di ricostruire le ragioni (storiche,
politiche, sociali, culturali, organizzative, etiche) che passo dopo passo, come su
un piano inclinato, hanno causato l’attuale drammatica situazione in cui si trova
non tanto la magistratura italiana (di per sé, non sarebbe di grande interesse)
quanto la giustizia.
La giurisdizione è uno dei tre pilastri costituzionali su cui poggia la repubblica. Ed
è quello che più degli altri la rappresenta agli occhi dei cittadini, perché incide
direttamente e discrezionalmente sui loro interessi e sui loro diritti, spesso
decidendone il sacrificio. E perché la giurisdizione è custode non secondaria del
principio di uguaglianza, cardine della repubblica.

La nostra generazione, quella di chi ha ormai lasciato la magistratura, ha vissuto il
periodo storico in cui le trasformazioni della giustizia, sotto ogni profilo, sono state
più evidenti dal dopoguerra in poi. Dopo la magistratura sonnacchiosa e paludata
del periodo fino agli anni sessanta, che il rispetto ossequioso per il potere
(qualsiasi potere, anche delle parti in causa) l’aveva assimilato in modo naturale
senza neanche avvertire – con le dovute eccezioni -che un’altra strada esisteva, la
prima scossa si realizzò nel 1964 con la nascita di Magistratura Democratica. Poi
la giurisprudenza sullo Statuto dei Lavoratori del 1970 ad opera dei pretori del
lavoro milanesi (Canosa, Federico, Montera) e nel 1974 l’inchiesta dei tre pretori
“d’assalto” di Genova (Almerighi, Sansa, Brusco) sul primo scandalo dei petroli
segnarono il passaggio ad una nuova fase. Furono anni di tante grandi e
avanzate riforme in molti settori (Statuto dei Lavoratori, divorzio, diritto di famiglia,
legge penitenziaria, legge Basaglia sui manicomi, riforma tributaria, riforma
sanitaria e istituzione del servizio sanitario nazionale, fino all’abrogazione del
“delitto d’onore e del “matrimonio riparatore”. Sembrò che finalmente i principi
costituzionali potessero davvero realizzarsi. La magistratura, o meglio una sua
piccola parte, si fece interprete di questo nuovo clima di riscoperta dei valori
costituzionali e in particolare del principio di uguaglianza.

Ma quelli non furono anni trionfali. Perché intanto il paese era scosso dal
terrorismo, dalle stragi, dai delitti di mafia, dall’eversione. Fu, oggi possiamo dirlo
con sicurezza alla luce di quello che nel tempo è emerso, la risposta proprio al
progressivo spostamento dell’asse politico verso le forze di sinistra. Alle elezioni
amministrative del 1975 il PCI raccolse il 33,4% dei voti e confermò il forte
aumento dei consensi alle politiche del 1976 con il il 34,37% dei voti per la
Camera dei Deputati. Una tendenza che avrebbe portato il 16 marzo 1978 (il
giorno del sequestro di Aldo Moro) alla nascita della prima maggioranza di
governo comprendente il partito comunista.
Erano gli anni della guerra fredda, e il nostro Paese si trovò ad esserne uno snodo
cruciale. C’era anzitutto la vicinanza geografica ai Paesi comunisti. La Yugoslavia
e l’Albania, pur non allineati con l’Unione Sovietica, erano a poche decine di
chilometri. E poi, appunto, il Partito Comunista Italiano cresceva impetuosamente
nei consensi, anche per la spinta delle lotte operaie del 1969 e dell’ondata di
rinnovamento che, come abbiamo visto, ne era derivata.
C’era poi, preoccupante per i tutori dello status quo, la perdita di senso del potere
democristiano, incapace di andare oltre la pura e semplice gestione del potere.
E’ il tema dell’articolo di Pier Paolo Pasolini “Il vuoto del potere” ovvero “l’articolo
delle lucciole” sul Corriere della Sera, 1 febbraio 1975.
Il potere della Democrazia Cristiana, scriveva Pasolini, si fonda su “valori
(Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità) che di colpo non
contano più”… i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i
loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro …).
Per i detentori del potere reale, del potere di decidere davvero il destino del nostro
Paese, l’eventualità che un partito alleato con Mosca prendesse il potere era
stato per gli anni cinquanta e sessanta un pericolo non incombente, da tenere a
bada con “ordinari” strumenti di controllo e di intervento. Ma dalla fine degli anni
sessanta, con l’autunno caldo e l’incalzare delle lotte operaie, e ancora di più con
l’avanzata elettorale del PCI, il pericolo era diventato reale.
I protocolli segreti allegati al Patto Atlantico del 1949 (V. Giuseppe De Lutiis,
Storia dei Servizi Segreti in Italia, Editori Riuniti, 1984) consentivano agli Stati
Uniti di intervenire “con qualsiasi mezzo” nel caso il Partito Comunista avesse
preso il potere in Italia, anche attraverso libere elezioni.
Nessuno di questi mezzi fu trascurato. E’ ormai storia condivisa e non più tesi di
parte la sicura responsabilità dei servizi segreti italiani nelle stragi (fin da quella di
Piazza Fontana del 12 dicembre 1969). E’ scritto in tante sentenze dei giudici: è in quegli anni che si costituisce la Loggia P2 con il compito di condizionare e
manovrare la vita politica italiana e di gestire il terrorismo e le stragi per conto dei
poteri paralleli, dello stato ed esterni allo stato.. Per la strage dell’Italicus del 4
agosto 1974 la sentenza della Corte d’Appello di Bologna parlò espressamente di
un marchio politico della P2, dimostrato tra l’altro (ma non solo) dai rapporti diretti
tra Licio Gelli e la cellula neofascista di Arezzo che la stessa sentenza (poi
riformata) in base ad elementi oggettivi non discutibili riteneva responsabile della
strage; è in quegli anni che si fa stretta e non episodica l’alleanza tra i poteri
occulti interni allo stato e la criminalità organizzata, sia politica che comune. Ormai
è indiscutibile che lo stato (con le sue derivazioni criminali) si servì dei neofascisti,
della Banda della Magliana, della camorra (si ricordi il caso del sequestro Cirillo
del 1981, con la trattativa che vide coinvolti i Servizi, la camorra, la Democrazia
Cristiana e le Brigate Rosse).
Nel 1978, quando il PCI entrò a far parte della maggioranza di governo, il
principale autore della svolta, Aldo Moro, fu prima avvertito (da Henry Kissinger) in
occasione di una visita negli Stati Uniti, poi sequestrato e ucciso. Oggi nessuno è
disposto a credere che le Brigate Rosse abbiano deciso e fatto tutto da sole.
Troppo evidente il ruolo dei servizi segreti come le indagini (soprattutto della
Commissione Parlamentare di inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni) hanno
dimostrato.

Sono cose note. Ma, si dirà, che attinenza hanno con la questione della
magistratura?
La risposta è semplice: era impossibile che il terzo potere dello stato non fosse
interessato e squassato da una simile situazione politico/criminale.
Anche perché proprio l’esistenza di relazioni di persone e apparati dello stato (per
conto terzi o in proprio) con la criminalità organizzata è con ogni evidenza
all’origine della deflagrazione della corruzione, in tutti i sensi del termine. Furono
corrotte le istituzioni dal momento in cui qualcuno in loro nome maturò debiti per
favori ricevuti nei confronti di ambienti criminali, non esclusi fatti omicidiari. Anche
la semplice conoscenza delle malefatte da parte della delinquenza organizzata
rappresentava un’arma di ricatto formidabile. I criminali e i loro rappresentanti tra i
colletti bianchi furono in grado di avanzare pretese in termini di potere. Le
istituzioni si misero nelle mani della criminalità. E’, in ultima analisi e a livello
generale, quello che è accaduto nelle relazioni tra stato e mafia. Lo stato pensava
di usare la mafia e i poteri criminali come il presidente dell’ENI Enrico Mattei diceva di usare i fascisti (“li uso come un taxi, pago e scendo) e invece è successo il contrario.
Ci volle tempo perché la magistratura prendesse coscienza del fenomeno. A
consuntivo si può dire che gli anni settanta vedono nascere e svilupparsi quella
corruzione che poi, nel decennio successivo, diventerà endemica. E la
magistratura, oltre alla sua gran parte che continua a fare tranquillamente il
proprio lavoro, vede – di fatto – formarsi due schieramenti. Da una parte pochi ma
non pochissimi magistrati soprattutto a Roma e in Cassazione – si mettono al
servizio del sistema di potere illegale di cui si è parlato. Come si è detto molti
comportamenti criminali, anche dei colletti bianchi, sono in ultima analisi (senza
voler generalizzare) inscrivibili e catalogabili come fatti politici, nel senso che i
criminali (malavitosi, faccendieri, professionisti di vario ordine, militari, funzionari
dello stato, giornalisti, banchieri, industriali) godono di protezioni politiche e
rispondono a questo o quel gruppo di potere politico, quando non ad un
determinato personaggio politico. Questi ultimi solo di rado si muovono con
motivazioni e per interessi propri ed esclusivamente personali o anche solo per
interessi di partito. Anche gli ambienti politici a loro volta godono di protezioni e
collegamenti che li mettono al riparo da inconvenienti. Non è un caso che assai
spesso indagando su fatti di corruzione si incontrava o si sfiorava, “presente sulla
scena del crimine”, questo o quell’esponente dei servizi.
Ma il punto è che tutto questo era legittimato (la parola, purtroppo, non è affatto
casuale) dalla strategia complessiva in cui tanti fatti si inquadravano. La lotta al
pericolo comunista aveva bisogno di tutti, e tutti andavano aiutati e protetti. La
guerra fredda con le sue sporche necessità aveva queste ricadute.
E la magistratura? I magistrati – soprattutto a Roma e in Cassazione – che si
mettono al servizio del sistema di potere illegale di cui si è parlato non sono solo
magistrati corrotti. Sono, di fatto, arruolati nelle schiere dei difensori del sistema di
potere che è al governo. Sono, nei fatti, attori della guerra fredda. Questo, come si
accennava, di fatto legittima il loro modo di agire e d intervenire. E’ questo che dà
loro forza e sicumera, che li fa sentire protetti. Intoccabili. Certamente è mancato
del tutto l’intervento in autogoverno del Consiglio Superiore della Magistratura, ci
sono state connivenze, pavidità e omertà da parte di chi avrebbe dovuto
controllare. Ma c’è stato molto di più, a dar forza ai magistrati corrotti: il potere era
dalla loro parte, e poco importa fosse un potere criminale. Il potere criminale
manovrava magistrati piazzati in posti strategici, soprattutto negli uffici giudiziari romani e, manco a dirlo, in Cassazione, dove il potere è di fatto insindacabile,
dove qualsiasi decisione, anche la più proterva, è “giusta” per definizione.
Ed è per questo che salvo eccezioni, le indagini e i processi finivano per
naufragare. L’elenco potrebbe essere lungo. Si può ricordare il processo
padovano istruito da Giovanni Tamburino sulla Rosa dei Venti, trasferito a Roma
dalla Cassazione e poi addomesticato a dovere; o il processo romano seguito alla
scoperta degli elenchi della P2, sfilacciato e di fatto insabbiato dal consigliere
istruttore Ernesto Cudillo e poi ridotto a poca cosa dal Tribunale nonostante il
grande impegno di Elisabetta Cesqui che cercò di recuperare per quanto possibile
un’impostazione accusatoria che potesse affrontare il dibattimento.
Questo periodo storico è contrassegnato da due date e due episodi cruciali, il
secondo dei quali rappresenta un grande segnale della parte sana della
magistratura.
Già dal febbraio 1978 il Ministro del Tesoro Gaetano Stammati (iscritto alla P2) e
Franco Evangelisti – stretto collaboratore di Giulio Andreotti- avevano fatto
infruttuose e ripetute pressioni sulla Banca d’Italia, in particolare sul governatore
Paolo Baffi e sul direttore della vigilanza Mario Sarcinelli, perché dessero il loro
assenso alla sistemazione – a carico dell’erario – del dissesto della Banca Privata
di Michele Sindona. Il 24 marzo 1979 due magistrati romani, il pubblico ministero
Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi, concludono l’assalto alla
Banca d’Italia incriminando pretestuosamente Paolo Baffi e arrestando Mario
Sarcinelli.
Ma si andò ben oltre: nel luglio 1979 a Milano un emissario di Sindona assassinò
l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca, altrettanto
tenace nell’opporsi alle pretese degli ambienti sindoniani. E proprio questo
omicidio e l’istruttoria che ne seguì furono l’origine della scoperta, il 17 marzo
1981 a Castiglion Fibocchi, delle liste della loggia massonica P2 da parte di due
giudici, Giuliano Turone e Gherardo Colombo, di pasta e cultura istituzionale
opposta a quella dei magistrati romani che avevano attentato alle istituzioni con la
cervellotica e strumentale accusa ai vertici della Banca d’Italia. Solo la estrema
cautela e le precauzioni prese per la perquisizione garantirono il buon esito del
sequestro. Ne seguirà, come è noto, anche una sentenza disciplinare del
Consiglio Superiore della Magistratura (il relatore fu Vladimiro Zagrebelsky). Il
criterio guida fu garantista: la sentenza sanzionò non la formale adesione ma
l’appartenenza alla P2, e cioè la consapevole partecipazione alla sua attività. Ne derivarono alcune assoluzioni ma anche dure decisioni per i colpevoli, in buona
parte radiati dalla magistratura.
Da lì in avanti sarà guerra aperta. Quasi a carte scoperte. Chi si mette al servizio
dell’illegalità lo fa in modo quasi spudorato. Tutti sanno chi sono i magistrati
corrotti, nessuno si stupisce quando qualcuno di loro viene incriminato o arrestato.
Ma dall’altra parte, con fatica e spesso in solitudine, qualcuno non accetta tutto
questo e prova a reagire. Gli ostacoli sono tanti. E durissimi da superare.
La ragione è stata già esaminata, e vale la pena di metterla meglio a fuoco.
La corruzione, l’uso di strumenti illeciti ad ogni livello, la compromissione delle
istituzioni, le relazioni oscure tra politica, affari, finanza, professioni soprattutto
legali, la ormai indecifrabile osmosi tra legalità e illegalità, non erano più esterne al
sistema istituzionale. I personaggi “chiacchierati”, anche tra i magistrati, erano
rispettati e temuti. Tutto il sistema, compresa una buona parte di quello giudiziario,
ne prendeva atto e si adeguava.
Non è fantasia né complottismo: tutto era consentito per tutelare lo status quo e gli
equilibri di potere che lo garantivano.
E d’altra parte, lo abbiamo notato, non si spiegherebbe altrimenti il ruolo, in tante
vicende criminali, di appartenenti a servizi di sicurezza, certo non a titolo
personale.
E’ un periodo buio per la magistratura. Gli organi di autogoverno non si
dimostrano all’altezza del drammatico compito che la Costituzione affida loro.
Quando non si arriva a chiare complicità o a pavide passività, c’è comunque un
enorme deficit di cultura istituzionale. Le correnti dell’ANM e per caduta il
Consiglio Superiore vivono quel periodo cruciale come si fosse in tempi ordinari,
continuando a gestire spartizioni di potere che sarebbero miserabili sempre e
comunque ma che in quel contesto sono lunari. Di altro non sono capaci, o non
vogliono.
Ne risultano nomine a posti direttivi che troppo spesso non favoriscono la
professionalità, la moralità, la capacità organizzativa, ma l’appartenenza a questa
o quella corrente. Di fronte a condotte censurabili, la mano è quasi sempre
leggera. Sono cose fin troppo note.
E’ probabilmente in questo periodo che matura la crisi radicale e di lì in poi
irreversibile dell’autogoverno, nonostante qualcuno se ne renda conto e la
denunci. Uno di questi è il nostro Mario Almerighi. La sua nobile rabbia civile -e
quella di altri magistrati di grande sensibilità democratica- dà vita al progetto del
Movimento per la Giustizia. Il nuovo gruppo non vuole essere una corrente dell’ANM ma qualcosa di profondamente nuovo che segni una rottura con il rigido
senso di appartenenza e si apra anche a chi magistrato non è. L’obiettivo è la
creazione di un laboratorio di idee e proposte per superare il cieco corporativismo
dell’ANM e valorizzare le migliori energie interne alla magistratura. L’obiettivo è
stato raggiunto solo in parte. Di fronte agli attacchi politici contro i magistrati che fanno bene il loro dovere la reazione c’è, ma è fatta di stereotipi, di frasi fatte, di difese di ufficio, di vittimismo, di corporativismo, e senza mai voler distinguere tra i magistrati buoni e cattivi.
Manca del tutto la capacità di alzare lo sguardo e di rivendicare in modo credibile
il ruolo costituzionale dei magistrati. Manca un’analisi politico-istituzionale che
certo sarebbe spettata al terzo potere dello stato e ai suoi organi di autogoverno.
Due parole risuonano ancora, piagnucolose e già allora insopportabili:
delegittimazione e sovraesposizione.
Anche perché, poi, le prassi dell’autogoverno dimenticavano le fiere declamazioni
dei comunicati e delle delibere del Consiglio Superiore, e si tornava alla gestione
del potere interno.
A ripensarci oggi, non è incredibile l’esito del concorso del 1988 tra Meli e
Falcone per il posto di consigliere istruttore di Palermo? Già allora sembrò
quantomeno un grande errore; oggi possiamo dire che si trattò di una scelta che
non volle tener conto né degli interessi della magistratura a valorizzare i migliori,
né soprattutto delle esigenze della lotta alla mafia e della tutela delle istituzioni.
Una scelta in malafede.
Questo modo di gestire l’autogoverno, all’insegna del “troncare, sopire” del Conte
Zio manzoniano, resiste cocciutamente fino ai primi anni novanta. Poi qualcosa
cambia. E’ caduto il muro di Berlino. Il periodo della guerra fredda è finito, il
Parlamento concede l’autorizzazione a processare Giulio Andreotti per i rapporti
con Cosa Nostra. Il mondo politico viene sconquassato da Mani Pulite e i vecchi
assetti di potere crollano; la lotta alla mafia vede l’arresto di Totò Riina; si
costituiscono nuove strutture investigative. Purtroppo, anche dai tragici attentati di
Capaci e di Via d’Amelio i magistrati ricevono nuova forza. Nuove indagini
investono i centri di potere illegale. Molti processi e condanne raggiungono gli
ambienti giudiziari, soprattutto romani. Non ci sono sorprese, i nomi sono noti da
molto tempo.
Ma oggi, a conti fatti, qualcuno può dire che le strutture associative e gli organi di
autogoverno abbiano colto l’occasione del nuovo ciclo politico per finalmente rifondare su basi nuove il modo di essere dei magistrati? La nuova epoca che si
apriva assegnava ai magistrati compiti nuovi e nuove responsabilità, ed anche
una nuova credibilità presso i cittadini (che è altra cosa rispetto ad una investitura
popolare che era da rifiutare, come è accaduto).
La nuova era, forse per la prima volta (a parte i tentativi di pochi negli anni
precedenti) indicava un compiuto percorso costituzionale: la realizzazione, se non
per intero almeno come tendenza e come possibilità concreta, dell’uguaglianza di
tutti i cittadini di fronte alla legge. Adesso la magistratura e i suoi processi non
scontavano più la disuguaglianza di potere di fatto, che fino ad allora aveva
messo in difficoltà e spesso annullato il ruolo di intervento e di controllo dei
magistrati. I pesanti condizionamenti esterni ed interni (con il tramonto, anche per
ragioni anagrafiche, delle vecchie figure di capibastone delle correnti) erano ormai
inoffensivi. Era possibile, era doveroso far partire una nuova epoca di pulizia, di
coraggio, di lealtà dei vertici nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria.
Dire che l’occasione non fu colta sarebbe un eufemismo. In realtà, fu come se la
nuova situazione storica non fosse arrivata, come se non fosse evidente che non
si poteva continuare come nulla fosse accaduto. Nulla di rilevante accadde
all’interno della corporazione. Stessi riti spartitori, nessuna indicazione di possibili
nuove vie per la verifica e valutazione della professionalità dei giudici. A fronte
delle nuove e ingigantite responsabilità, sarebbe stato necessario finalmente un
salto di qualità culturale perché i magistrati non si sentissero tanto detentori di un
potere, e nemmeno semplici burocrati chiamati ad applicare la legge, ma portatori
di una cultura civica prima che giuridica, di una apertura mentale capace di
interpretare i fatti prima ancora che il diritto. Certamente molti magistrati queste
capacità le avevano, le hanno e le portano nei processi, ma non era e non è
prevista nessuna seria verifica in questa direzione. E’ molto più facile e comodo
verificare la conoscenza tecnica del diritto, richiedere su un dato tema la
conoscenza dell’ultimo arresto della Cassazione. Ma questo è stato ed è un
sistema deresponsabilizzante per tutti, per i controllori e i controllati.
L’autogoverno non può prescindere dalla necessità di una valutazione di ordine
culturale: questa persona è in grado di usare in modo corretto la logica? E’ in
grado di non limitarsi al rispetto della logica formale e di adeguarne l’impiego a
quello che i fatti suggeriscono? “I fatti hanno le loro esigenze” scriveva Gustavo
Zagrebelsky molti anni fa in “Il Diritto mite”. Questo giudice ha il coraggio (se di
coraggio si deve parlare) di contraddire la giurisprudenza di legittimità quando è giusto farlo? E’ capace di valutare correttamente gli indizi, senza pavidità
burocratiche ma anche senza salti logici e di senso?
E’ vero, è un tema scivoloso e nessuno dimentica la proposta contenuta nel Piano
di Rinascita Democratica della P2 di un controllo sulla psicologia del magistrato.
Ma non si tratta di questo, ed anzi lo spauracchio del controllo politico sulla
maggiore o minore addomesticabilità del magistrato ha rappresentato, di fatto, un
blocco rispetto al dovere di affrontare la questione.
Sappiamo quanto sia frequente che le sentenze di primo grado siano contraddette
da quelle successive. Sappiamo che solo in certi limiti questo è fisiologico.
Qualcuno è mai andato a verificare se nell’una o nell’altra sentenza ci siano chiari
errori nella valutazione ed interpretazione dei fatti?
Adesso la riforma Cartabia prevede che tutto questo sia oggetto di valutazione.
E puntuale ecco la chiusura della magistratura di fronte a qualsiasi riforma che
introduca un sistema di controlli. La pretesa di insindacabilità sarebbe
inaccettabile in ogni caso, ma è surreale se la corporazione ogni giorno dà prova
di inaffidabilità. E così, la nuova stagione politico/istituzionale (la “seconda Repubblica”) cambia
tutto ma non i vecchi metodi della magistratura.
Lo spazio per una profonda riflessione su questi temi si chiude in fretta. Arriva
Silvio Berlusconi. Da quel momento e per un lunghissimo periodo l’autogoverno
dei magistrati e la loro associazione si dedicherà – forzatamente – alla difesa delle
prerogative della giurisdizione dai tentativi di renderla inoffensiva nei confronti del
potere berlusconiano. Il tema diventa uno solo e azzera tutti gli altri: il cosiddetto
conflitto tra magistratura e politica. Era un tema già invadente prima, dal 1981,
con gli attacchi di Craxi contro chi a Milano indagava sul banchiere Roberto Calvi.
Con l’avvento di Berlusconi diventa esclusivo e ossessivo.
Non è certo una colpa per gli organi di autogoverno l’essersi dedicati a questo
tema, e nemmeno si può dire che, di per sé, la difesa sia stata condotta con
argomenti e toni sbagliati. Ricordiamo che un’importante parte dell’opinione
pubblica assunse posizioni di sostegno ai magistrati. Nacquero nuove
associazioni, ci furono grandi manifestazioni pubbliche, si formarono comitati.
La battaglia fu necessaria, condivisa, quasi ovvia tanto era evidente la
prevaricazione dei prepotenti.
Ma nel frattempo i mali della magistratura associata e per caduta del CSM certo
non guarirono. Anzi: proprio il fatto che la magistratura fosse sotto attacco e avesse il sostegno dell’opinione pubblica rese molto più difficile discutere delle
criticità interne e accentuò la chiusura a riccio di fronte alle obiezioni contro il
sistema clientelare e la mancanza di controlli sulla professionalità: come si poteva
criticare e indebolire quello che era l’unico vero baluardo contro il berlusconismo?
Non si comprese (o non si volle comprendere) che per svolgere il nuovo ruolo che
la storia le assegnava la magistratura avrebbe dovuto assumere un volto nuovo.
Non si ricorda nessun significativo intervento per uscire dall’angolo in cui gli
attacchi berlusconiani volevano confinare i magistrati, piccole e grandi devianze
non furono ritenute degne di attenzione, troncare e sopire continuò ad essere il
canovaccio. Tutti sapevano, nessuno si mosse.
Un solo esempio: Orazio Savia, magistrato della Procura di Roma, era noto a
tutti per i suoi rapporti con la politica e in particolare con il Partito Socialista. Nel
febbraio 1993 Sergio Castellari, dirigente delle Partecipazioni Statali, si suicida
dopo aver saputo che Savia ha chiesto per lui un provvedimento di cattura che ha
il solo scopo di indurlo a fare dichiarazioni che possano permettere lo
spostamento del processo Enimont da Milano a Roma. L’accusa contro Castellari
è quella di peculato, per essersi portato a casa documenti di ufficio da studiare.
Castellari lascia una lettera: “Non posso accettare di essere inquisito da persone e
uffici di cui è nota la personale e profonda corruzione”. Tutti conoscevano la
disonestà di questo magistrato. Che però, dopo questo episodio, fu nominato
procuratore capo di Cassino, e anche lì la sua tempra si distinse.
Fu solo la magistratura penale a metterlo finalmente fuori gioco per una lunga
serie di attività corruttive che gli avevano permesso di accumulare un patrimonio
di oltre 5 miliardi di lire soprattutto in titoli e immobili, intestati al suo
commercialista e alla segretaria di quest’ultimo. Savia restituì i 5 miliardi e
patteggiò la pena dopo una lunga custodia cautelare in carcere.
E’ solo un esempio di come (non) funzionò l’autogoverno. Il ventennio berlusconiano ci ha restituito una magistratura alle prese con i problemi di prima.
Sono passati decenni, la situazione politico-istituzionale è cambiata più volte,
sono cambiati gli attori, ma non il copione. La situazione anzi si è aggravata.
Anzitutto non si intravedono, salvo eccezioni, figure interne alla magistratura di
livello tale da rappresentare una guida e un esempio per gli altri, in particolare per
i più giovani. Anche perché in realtà nessuno è in grado di dire quale magistratura
si vuole. Si richiama la Costituzione ma lo si fa in modo assolutamente generico, rituale. La magistratura non sa andare oltre le frasi fatte, la politica si divide ogni
volta e richiama, della Costituzione, solo quello che di volta in volta le interessa.
La magistratura è acefala. L’ANM è sempre di più un semplice sindacato di
categoria e forse, a pensarci, non poteva che essere così. La convivenza e la
collaborazione di correnti culturali tanto distanti tra loro non avrebbe potuto
produrre altro che la ricerca di accordi interni al ribasso, tali da lasciare fuori le
idealità più caratterizzanti delle singole componenti. Restava, quale unico terreno
di incontro, la pura e semplice attività sindacale. Ovviamente accompagnata,
all’occorrenza, da alti lai sui soprusi subiti, presunti, temuti.
Ma se questo è accaduto, se la magistratura ha fatto in modo che accadesse, se
la natura di sindacato è prevalsa, se le idealità culturali e politiche delle correnti
sono praticamente scomparse dal discorso pubblico e da quello interno alla
categoria, ciò vuol dire che quelle idealità sono state vissute e sentite in modo
debole, sempre più debole nel tempo. Assieme alle posizioni di parte è stato del
tutto abbandonata la cura delle più alte idealità comuni alle correnti. Si è stati
capaci solo di dire molti no ma non di proporre un modello costituzionale del
magistrato, anche e soprattutto nelle prassi di autogoverno.
Il paragone può essere azzardato ma il riferimento avrebbe dovuto essere con la
Resistenza, in cui collaborarono forze politiche lontanissime unite però dal
comune intento di sconfiggere il nazifascismo e conquistare la libertà e la
democrazia.
E siamo all’oggi, al caso Palamara (che non è solo il caso di Palamara). E
all’abisso di vergogna che ha rivelato.
Un oggi che rischia di durare ancora a lungo, considerato che nessuno dei nodi
che la storia e la cronaca hanno proposto è stato sciolto; che anche il caso
Palamara ha avuto esiti deludenti sul piano della risposta istituzionale; che ancora
una volta è sconsolante assistere alla totale incapacità dell’autogoverno di
riformarsi; che dilaga tra i cittadini la sfiducia verso i magistrati.
Certo, per parafrasare Winston Churchill, l’autogoverno è il sistema peggiore con
l’esclusione di tutti gli altri. Ma può bastare questo per evitare che prima o poi
qualcuno lo metta in discussione?

L’importanza di un incontro

di Rosalba Turco

Siamo agli inizi dell’anno 2000, è un periodo molto triste e difficile per la giurisdizione poichè da un lato si assiste per la magistratura allo svilimento dei principi che connotano l’autogoverno e l’autonomia della stessa e dall’altro anche per l’avvocatura, mancando la fiducia negli amministratori della giustizia, si respira un clima di forte “corporativismo”, tale da non favorire un confronto costruttivo tra le parti.
Mario Almerighi, che da sempre combatteva con grande impegno e fervore l’appartenenza ed il corporativismo, con la sua lettera “Invito ad un incontro”, indirizzata a magistrati, avvocati ed operatori del diritto presentava una proposta davvero innovativa e fino a quel momento non esplorata. Quella di riunire intorno ad un tavolo magistrati, avvocati, operatori del diritto alfine di cercare insieme una nuova cultura della legalità e della giurisdizione per un migliore funzionamento della giustizia, nell’interesse dei cittadini e della collettività.
In molti hanno risposto a quell’invito, cui ha fatto seguito la fondazione dell’Associazione Culturale Isonomia, trasfusa poi nella nostra attuale associazione che continua quel percorso iniziato 22 anni fa, aperto ancor più oggi alle giovani generazioni, per trasmettere e tenere vivo quel discorso sulla legalità mai interrotto ed ora più che mai indispensabile per contribuire alla ripresa culturale del nostro paese.

Mario e Sandro

di Sergio Materia

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, passa in rassegna un reparto dei Bersaglieri. Roma, 8 luglio 1978

Il 24 marzo, proprio nel giorno in cui cinque anni fa è scomparso Mario Almerighi, il comune di Roma ha deciso che la casa di Sandro Pertini diventerà un museo multimediale.
Mario Almerighi è stato presidente della Fondazione Sandro Pertini e si è battuto perché la memoria del Presidente e di quello che ha rappresentato restasse viva.
Ancora una volta le figure di Pertini e di Almerighi si incontrano. E forse non è solo un caso che questo accada in questo periodo di guerra in cui, spesso a sproposito, prendono la parola i movimenti pacifisti.
Invece di tante parole, basterebbe ricordare la figura di Sandro Pertini.
Nessuno ha dimenticato le sue parole di pace (“si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai”). Ma quel Pertini è lo stesso che fu a capo di un’organizzazione partigiana che le armi le usò eccome, perché servivano a combattere il nemico nazifascista. E non c’è nessuna contraddizione dovuta magari alla distanza temporale, come qualcuno potrebbe pensare. E’ lo stesso Sandro Pertini, nell’uno e nell’altro caso, che aveva chiarissimo il confine nettissimo tra amore per la pace e passività.
Nemmeno chi mette la pace al primo posto tra i valori fondanti di una società può essere arrendevole quando un feroce oppressore mette sotto attacco la libertà e la voglia di democrazia.
Perché come ha scritto il teologo Vito Mancuso rispondendo alle sorprendenti affermazioni “pacifiste” del presidente dell’ANPI, la libertà e la dignità sono più importanti e più sacri della vita stessa. Basta rileggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza.
Tutto questo è scritto nella Costituzione. Viene spesso ricordato l’art. 11: L’Italia ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
E già il discorso si fa più complesso del semplice ripudio della guerra. Ma poi c’è l’art. 52: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. E allora è chiaro che la reazione anche armata contro un nemico oppressore o invasore non solo è legittima ma è doverosa. E se questo vale per la propria patria, deve valere per tutte le patrie.
Pertini tutto questo, questa convivenza tra volontà di pace e fermezza davanti alla violenza ingiusta, lo ha impersonato in tutta la sua vita.
Anche sul piano personale era così, perché era burbero ma sotto sotto ci vedevi un che di scanzonato, di accogliente.
Io credo proprio che anche questo aspetto della figura di Pertini abbia conquistato Mario Almerighi. Perché anche Mario era così. Sempre gentile, sentiva forte il senso dell’amicizia. Era la base necessaria di ogni discorso politico. Per questo, le delusioni vissute nella sua attività pubblica erano anzitutto delusioni sul piano personale.
Ma anche Mario era capace, eccome, di battaglie tenaci in nome della dignità e del senso di giustizia, e mai in nome di interessi personali.
Oggi insomma anche Mario Almerighi rivive ed è presente in questa bella occasione di ricordo di Sandro Pertini. E sarebbe bello che i giovani, assieme alla figura del più amato dei presidenti, riscoprissero quella di un grande giudice e grande uomo come Mario Almerighi.

Una casa per le idee di Pertini

di Valdo Spini

Anni fa, andammo con Mario Almerighi dall’allora commissario prefettizio al Comune di Roma, Fabrizio Tronca, per prospettargli il problema della casa a Fontana di Trevi dove Sandro Pertini viveva con la moglie Carla e che è di proprietà del Comune Capitolino. L’idea era di farne una Casa della Memoria per raccontare il suo impegno politico e sociale, e dare a tutti la possibilità di ricordare nel tempo la sua vita e le sue opere . Pertini non ha mai abitato al Quirinale, ma è sempre rimasto  in questa piccola casa nel cuore di Roma. Volevamo proporre attività interattive e di proiezioni , dirette soprattutto ai giovani un museo didattico che poteva  arrivare comunque all’interesse  di tutti, senza limiti di età. La nostra visita al Commissario non ebbe poi seguito per il poco tempo che allora ci separava dalle elezioni amministrative del 2016. Ma nella nuova consiliatura (eletta nel 2021) l’idea ha finalmente trovato un seguito nelle istituzioni. Per iniziativa della consigliera comunale Antonella Melito, con una mozione in Campidoglio fatta propria da tutto il gruppo Pd, quell’idea, cui Mario Almerighi teneva tanto, è stata rilanciata. Si dice nella mozione “Chiediamo al Sindaco e alla Giunta di portare avanti il progetto per un’esperienza che possa tenere in vita la memoria del Presidente “più amato dagli italiani”. Sono molto grato alla consigliera Melito e al gruppo Pd che risollevano nel consiglio comunale di Roma Questo tema.. Ritengo che la vita di Sandro Pertini possa essere di importante stimolo per la partecipazione nella vita pubblica e per l’impegno nella vita politica delle giovani generazioni. Ricordo quello che diceva il Presidente Pertini: “Giovani, scegliete una fede politica democratica e per quella date il meglio di voi stessi».

Valdo Spini

Credo che sia un invito quanto mai attuale, e mi auguro che tutte le forze presenti in Aula Giulio Cesare vogliano accogliere questa iniziativa significativa, che nel cuore della  Città di Roma potrebbe dare risalto ad un grande impegno civile e politico.    

Sarebbe anche il miglior modo di ricordare la memoria del giudice Mario Almerighi.

In ricordo di Mario

Fontana di Trevi. Mario Almerighi con la sua famiglia davanti al palazzo che ha ospitato la residenza di Sandro Pertini (foto di famiglia)

Oggi 24 maggio ricordiamo il nostro presidente Mario Almerighi con affetto e riconoscenza per la dedizione e l’impegno costante nel perseguire i valori della legalità e della giustizia.

Pace è libertà

di Leonardo Agueci

Chissà cosa avrebbe detto Mario Almerighi di fronte alle immagini di guerra e di orrore che in questi giorni ci vengono mostrate di continuo?

Come quelli della generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale soprattutto attraverso i racconti dei propri familiari e le tragedie ancora recenti che l’avevano accompagnata, avrebbe probabilmente considerato del tutto insensata e inimmaginabile l’idea che potesse avvenire ancora qualcosa del genere.

E una chiara testimonianza del suo pensiero viene data da un appunto, ritrovato tra le sue cose, nel quale definisce la guerra come “la più sublime manifestazione dell’infinita stupidità dell’uomo”!

Siamo cresciuti coltivando i valori della pace, della libertà e del reciproco rispetto delle persone, quali fondamenti assoluti dei rapporti tra i popoli,  e – come se fossimo di colpo ritornati al 1939 – ci troviamo oggi di fronte alla violenta e prepotente invasione di una nazione sovrana europea ad opera di un’altra nazione più forte, formalmente motivata da evidenti pretesti ed accompagnata da stragi di inermi cittadini (tra i quali tanti bambini), da brutalità di ogni genere e dalla pianificata distruzione totale di intere città.

 Assistiamo sgomenti alle sistematiche violazioni di principi di umanità elementari ed alla quotidiana consumazione di efferati crimini di guerra, per effetto della volontà di pochi uomini, impadronitisi del potere assoluto e incontrollato del proprio paese.   

All’interno dello Stato invasore ogni libertà democratica risulta di fatto eliminata; ogni manifestazione di pensiero non allineata viene brutalmente repressa; non è consentito alla stampa, compresa quella straniera, alcun genere di informazione diverso dalle fonti di potere; viene persino tenuta nascosta ai propri cittadini la stessa esistenza di una guerra in atto.

I sentimenti di indignazione suscitati da tutto ciò non possono essere attenuati dalla considerazione che l’orrore riguarda realtà politiche e geografiche lontane (ma in realtà non lo sono!) e che l’unico reale motivo di preoccupazione per noi può derivare dagli effetti economici sulla nostra vita quotidiana.

È in gioco invece la libertà dei popoli, non solo di quello invaso – che lotta per la propria sopravvivenza – e di quello costretto ad essere invasore ma, attraverso loro, quella di tutte le nazioni.

E se non c’è libertà tutti gli altri principi di civiltà perdono di senso; gli stessi valori di Diritto e Giustizia – i ”nostri” valori – diventano semplici esercitazioni verbali o, peggio, ipocriti pretesti per consolidare le tirannie.

Le tragedie cui stiamo assistendo ci ricordano che la libertà va sempre protetta; che non può esserci vera pace senza libertà; che difenderla, quando viene messa in pericolo, costituisce un dovere morale assoluto, come ci ricorda l’insegnamento – sempre attuale – di Sandro Pertini.

Ci siamo a lungo adagiati nel considerare scontato e permanente il bene della libertà, ma ora è tempo di impegnarsi, in tutti i modi necessari, per riaffermarne fondamento ed importanza; lo dobbiamo soprattutto per impedire che il suo valore autentico e profondo possa essere allontanato dalle prospettive di vita dei nostri figli e delle nuove generazioni.

Scritti per Mario

24 marzo 2021

1939-2017

Ecco qui raccolti alcuni scritti di chi ha conosciuto Mario Almerighi nei suoi ruoli di magistrato, scrittore, autore teatrale e prima di tutto uomo dalle infinite qualità. L’associazione Sandro Pertini presidente-Isonomia, rifondata nel 2019 dopo una fusione tra le due associazioni, nasce da una sua intuizione ed in occasione del quarto anniversario dalla sua morte, quelli che hanno condiviso con il suo esempio un modello di vita hanno deciso di ricordarlo così in un momento particolarmente delicato della nostra democrazia.

Introduzione

Il 24 marzo 2001 Mario Almerighi ha fondato l’associazione Isonomia, dando spazio, così, ad una nuova avventura.

Il 24 marzo 2017 il nostro amico è morto.

In questo 24 marzo 2021, dopo quattro anni dalla sua morte, noi, che gli siamo stati vicini fino all’ultimo, condividendo con lui soddisfazioni ed amarezze, abbiamo scelto di incontrarci e di pubblicare “quello che lui è stato per noi”. Sono nati, così, per questa data, ricordi di Mario, che ognuno di noi riteneva più significativi, senza escludere, anzi richiedendo che anche altri scrivessero di lui, prevedendo la pubblicazione nei prossimi tempi.

Così oggi, un giorno dopo, vogliamo rendere pubblico questo “ritratto di Mario”, questo puzzle nel quale  abbiamo costruito una sua foto che cercasse di fare vedere, accanto al  suo volto, riprodotto ad ogni scritto, la sua anima, per quanto possibile, la sua impronta nella vita di ognuno di noi.

Sono nati così gli scritti che adesso offriamo alla lettura di tutti, scritti diversi, alcuni più attenti alla attualità del messaggio di Mario in confronto con la tempesta che sta squassando la magistratura tutta, altri più inclini ad un ricordo più intimo, più rivolto all’uomo Almerighi. Ognuno ha offerto la sua personale “lettura”, e ad ognuno va il ringraziamento degli altri, perché in piena libertà ha partecipato a questo speciale 24 marzo, che cercheremo di far diventare una specie di ricorrenza, una tappa del cammino nostro, su una pista che Mario ha comunque e per primo indicato e cominciato a percorrere.

A chi leggerà i nostri ricordi, buona lettura.

Vito D’Ambrosio (Presidente dell’Associazione Sandro Pertini-Isonomia).

Vito D’Ambrosio: Per Mario

Leonardo Agueci: Risalire la china

Adelmo Manna: Ricordo di Mario Almerighi in rapporto al caso Palamara

Sergio Materia: Contro…”corrente”

Adriano Sansa: C’era una nave

Gioacchino Natoli: In pochi verso la meta

Rosalba Turco: Mario Almerighi e il 24 marzo. Le riflessioni di un avvocato

Paolo Pacitti: Lettera a un esempio

Marcello Marinari: Un pensiero per Mario

Pino Zupo: In ricordo di Mario Almerighi

Per Mario

di Vito D’Ambrosio

1939-2017

di Vito D’Ambrosio

Negli armadi della memoria ci sono, a volte, nomi che si portano dietro una faccia, una persona, una storia.
Io conosco una marea di Mario, ma quando sento questo nome mi torna in mente ,subito, Il viso di Mario Almerighi, il suo sorriso, il caratteristico intercalare i discorsi con raschi di gola, dovuti non alla pipa, che fumava da quando aveva dovuto smettere con le sigarette, ma, secondo me, alla ricerca degli argomenti giusti per convincere l’interlocutore.
Avevo conosciuto Mario nel 1976, nel corso di una campagna elettorale per il CSM, quando era candidato, come me, per la categoria dei magistrati di tribunale. Quindi era un mio diretto concorrente, e la cosa non mi faceva piacere, vista la sua fresca ed ampia notorietà per lo scandalo dei petroli. Inoltre il suo essere l’antesignano della categoria dei “ pretori d’assalto” aumentava le sue possibilità elettorali, ulteriormente favorite dal sostegno aperto di Beria d’Argentine e Livia Pomodoro.
Quindi c’erano tutti gli elementi per la nascita di una mia profonda antipatia nei suoi confronti.
Ma, nel corso del folle giro d’Italia nel quale, all’epoca, si sostanziava la campagna elettorale, riuscii a conoscere Mario e a cancellare il germe dell’antipatia. Quel ragazzone sveglio, con gli occhi color del mare, che faceva i discorsi rituali di ogni elezione con un tono di convincimento e condivisione profondi, che portava con scioltezza il carico di notorietà suo inseparabile compagno, mi spiazzò presto, smontando la mia iniziale ritrosia. Inoltre la coincidenza degli interessi professionali, e della posizione verso una Associazione Magistrati nella quale stava già per iniziare la trasformazione delle correnti in apparati non refrattari a tendenze corporative, trasformò il rapporto tra Mario e me in una amicizia che ha retto per tutta la restante parte della sua vita, e che per me continua ancora, visto che Mario, come Giuliana, lo sento ancora qualche volta presente.
Mario, come era assolutamente prevedibile, fu eletto e iniziò le sue battaglie per una magistratura eticamente almeno accettabile, e si trovò subito di fronte ad un problema che nessuno ancora è stato in grado di risolvere, quello dei pareri che allora erano necessari per i vari incombenti di carriera. Ricordo ancora bene che una volta mi chiamò per chiedermi maggiori elementi giustificativi di un parere perplesso su un uditore (magistrato in tirocinio), sul quale tutti gli altri colleghi affidatari si erano espressi favorevolmente. I miei chiarimenti lo trovarono concorde, ma cauto sulle possibilità di un accoglimento da parte del CSM, cosa che anche qui prevedibilmente si avverò nel senso peggiore. Seguivo Mario a sprazzi, entrambi affogati dai rispettivi impegni lavorativi; soltanto per caso seppi del suo ricovero ospedaliero per una brutta ulcera dopo la fine dell’esperienza nel CSM : chiedendogli come mai si fosse convertito alla pipa, mi confidò che in ospedale gli avevano severamente proibito le sigarette. Tornò a Genova, dove, come constatai personalmente, aveva intessuto stretti rapporti di amicizia con molti dei magistrati giovani, oltre ai suoi due “gemelli d’assalto” Sansa e Brusco, che sono rimasti sempre suoi amici.
Continuammo a sentirci e a vederci nelle numerose riunioni della “corrente” alla quale entrambi appartenevamo, trovandoci sempre, o quasi, dalla stessa parte fermamente convinti che le crescenti tendenze corporative andavano contrastate vigorosamente, e sul punto raccoglievamo non molte adesioni, però pienamente convinte. Proprio su un caso importante, l’elezione del presidente della ANM, che scoppiò con tutta la potenza dell’appena pubblica vicenda della P2, decidemmo di esporre apertamente una posizione critica, stilando un documento, firmato da sei di noi. Per stampare il documento Mario si rivolse ad una tipografia sotto casa sua, che gli propose di utilizzare carta verde, per il risparmio sui costi e per la penuria momentanea di carta bianca. Nacque ,così, un movimento di protesta che, per il colore della carta e per dare sfogo ad una forte risentimento della maggioranza della correte, fu battezzato” dei verdi”, del quale Mario, per la sua preminente posizione personale e politica, fu “proclamato” rappresentante e presidente da tutti noi, nel frattempo cresciuti di numero.
Intanto io fui eletto al CSM e Mario raccontò a tutti, per anni, che avevo rifiutato un “apparentamento” con altro discusso candidato, circostanza che non io, ma appunto lui sventolò come segno di solida dirittura morale.
Durante il mio quadriennio consiliare il rapporto con Mario diventò sempre più forte, intessuto anche dei reciproci aggiornamenti sulle questioni più importanti che dovevamo (tentare di) risolvere io al CSM, e il mio amico all’ufficio istruzione del tribunale di Roma, al quale era stato destinato dopo il trasferimento da Genova. Ma l’amicizia si allargò sempre più ai rapporti personali, tanto che fui invitato, con pochi altri, al matrimonio di Mario e Susanna, nel quale portarono gli anelli i loro figli, Valeria e Dario. In un momento nel quale, un po’ stanco, anche per l’omicidio di Falcone e Borsellino, amici carissimi di Mario e miei, chiesi ed ottenni il “prestito” alla politica, e per dieci anni fui presidente della Regione Marche, Mario attraversò uno dei passaggi più brutti della sua esperienza di politica della magistratura. Eletto, infatti, Presidente della ANM, rilasciò, sotto il vincolo del segreto, ad una giornalista una dichiarazione sulla nomina a Ministro della Giustizia di un parlamentare, la cui candidatura sembrava fortissima. La giornalista pubblicò la dichiarazione, distorcendo totalmente il pensiero di Mario, e Almerighi finì dritto dentro una tempesta politico-correntizia, che lo indusse – o costrinse – alle dimissioni, vedendo rarefarsi amici considerati fidati, e subendo pressioni fortissime da colleghe e colleghi, quasi certamente ispirate da importanti soggetti politici. Mario ricorse al giudice competente (Perugia) ed ottenne una sentenza riparatrice dalla Corte d’Appello del 2009, confermata alla Cassazione nel 2012, con la quale Il Corriere della Sera, il suo direttore protempore De Bortoli e la giornalista Calabrò furono condannati a pagare al ricorrente la somma di € 50.000 di danni per lesione grave della sua identità personale. Ma il danno era stato già arrecato irreparabilmente.
Mario reagì a questa situazione molto sgradevole abbandonando l’ ANM, con la quale non ebbe più rapporti (la sua sardità glielo impedì) e fondando altre associazioni, sempre impegnate a rendere il compito della magistratura un servizio alla collettività e non soltanto l’esercizio di un potere personale (finalità nella quale coinvolse anche altri operatori del diritto, avvocati e studiosi, tentando perfino una apertura verso la società civile, che non doveva disinteressarsi).
Ma un altro impegno entrò nella vita di Mario, quello di tradurre le sue esperienze in narrazioni, e i suoi libri furono, tutti, intessuti di esperienze vissute, e tutti frutto della convinzione del loro autore di sollevare la soffocante coperta del segreto su alcuni snodi cruciali della società italiana. Leggendoli, al di là dello schermo narrativo, io vedevo Mario, pipa in bocca e incontri a raffica con amici, giornalisti, magistrati, avvocati, rappresentanti di associazioni analoghe. Solo lo scrittore Almerighi poté assorbire, con la giusta amarezza e non di più, la brutta esperienza della mancata riconferma alla presidenza del tribunale di Civitavecchia, ottenuta trionfalmente e bruciata per un atteggiamento per niente permissivo verso una situazione locale assai discutibile.
Era, il nostro rapporto, incardinato nella normalità quotidiana quando una sua telefonata mi sbalzò di sella; mi comunicava la scoperta di un tumore ad un organo, che io sapevo essere molto refrattario a qualunque contrasto, sia medico, sia chirurgico, al quale Mario decise di sottoporsi. Una mancanza di notizie mi illuse, ma poi la verità schiantò ogni mia speranza, fino all’ultima visita all’amico morente, con pochissimi colleghi/amici.
Mario è morto, ma non per noi, non per me. Rimane esempio di rara capacità professionale, di una ancora più rara, purtroppo, dirittura morale, e ancora, di una amicizia duratura, sincera, leale, come proprio era lui.
Cercheremo non tanto di commemorarlo, ma di seguirne la pista, noi che gli abbiamo voluto bene, con Susanna, Valeria e Dario ( ed anche Lampo, và) con l’affetto di sempre.
Una gran bella esperienza, avere avuto per amico Mario Almerighi.

Ancona, 22 marzo 2021.

Risalire la china

1939-2017

di Leonardo Agueci

In un articolo del giugno 1998, Mario Almerighi – nel tracciare il bilancio dei dieci anni dalla nascita del Movimento per la Giustizia scriveva che: “…La difesa della indipendenza e della autonomia della magistratura era in gran parte difesa di una scatola vuota dentro la quale ciascun giudice è pressoché arbitro assoluto di mettervi dentro il massimo della sua professionalità e della sua responsabilità fino al rischio della vita o il suo esatto contrario, fino al rischio della galera…”
E ancora, parlando dell’associazionismo in magistratura, osservava che “…la rappresentanza aveva perso il suo significato più nobile della delega controllata con riguardo all’aspetto contenutistico per adagiarsi su aspetti ricollegabili a logiche assistenziali di appartenenza amicale, d’ufficio, regionalistica o fondata su atteggiamenti fideistici…,” e, a proposito del Consiglio Superiore della Magistratura, rilevava che“…troppo spesso la gestione del CSM anziché essere improntata al criterio dell’uomo giusto al posto giusto era assai spesso caratterizzata dalla politica della maglia giusta nel posto sbagliato…” .
Oggi sarebbe fin troppo facile osservare come questa analisi – che peraltro, quando fu scritta, si riferiva alla situazione di 10 anni prima – presenti ancora caratteri di attualità, anche dopo altri ventidue anni, ma non sarebbe una conclusione esatta perché attualmente le cose sono decisamente peggiorate.
Il quadro desolante che è stato offerto dalla magistratura e dal suo organo di autogoverno con il “caso Palamara” rivela difatti come le criticità a suo tempo denunziate sono diventate distorsioni gravissime, si spera non irreparabili, dell’intero sistema e della sua reale rispondenza, nei fatti, al modello disegnato dalla Carta Costituzionale.
Un ripasso dei principi sembra allora opportuno.
La nostra Costituzione, nel configurare l’indipendenza della funzione giudiziaria, aveva rilevato la necessità di mettere al riparo il giudice da condizionamenti esterni, idonei ad incidere sul suo status professionale e quindi sulla sua vita reale.
Da ciò la determinazione di attribuire in modo esclusivo la gestione, in tutti i suoi momenti, della vita professionale del magistrato ad un apposito organismo, il Consiglio Superiore della Magistratura, formato in maggioranza da magistrati, eletti dalla stessa magistratura ordinaria, e ciò al fine specifico di garantire al meglio – attraverso l’autogoverno – l’indipendenza, sia del singolo giudice, sia dell’Ordine Giudiziario nel suo complesso, proteggendola da interferenze e condizionamenti provenienti da ogni genere di strutture e poteri, pubblici e privati, palesi e occulti.
Il fondamento di tale scelta si colloca chiaramente nella convinzione che la magistratura, attraverso i suoi rappresentanti eletti, fossa autonomamente in grado di applicare rigorosamente il principio fondamentale di esclusivo assoggettamento alla legge (art. 101 Costituz.) anche alla propria organizzazione interna.
In particolare poi, tenuto conto che i compiti più significativi assegnati al CSM (in particolare le nomine per gli uffici direttivi e semidirettivi) prevedono continue valutazioni comparative e discrezionali, si riteneva che l’autogoverno potesse garantire che le scelte si fondassero su esclusivi e reali elementi oggettivi e di merito professionale.
Fin dagli anni ’80 però era stato facile constatare come tale obiettivo fosse lontano dalla sua effettiva attuazione e ciò era stato costante oggetto di riflessione da parte di Mario Almerighi e del gruppo di colleghi a lui vicini, a partire da quando avevano iniziato a riunirsi per poi dar vita al Movimento per la Giustizia (aprile 1988), che difatti ha avuto, tra le sue ragioni fondanti, proprio la denunzia della involuzione delle correnti dell’ANM e della loro trasformazione in gruppi di potere.
Invero già all’epoca appariva chiaro come le correnti, nate all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati come espressioni di diverse e spesso contrapposte idee sull’esercizio della Giurisdizione, fossero divenute potenti strutture in grado di condizionare fortemente, e spesso determinare, le scelte di concreta attuazione dell’autogoverno.
In realtà l’organizzazione del consenso elettorale, del quale le correnti erano nate come legittime titolari, si era col tempo trasferita dal dibattito sulle idee, alle offerte – più o meno esplicite – di protezione ed assistenza al singolo magistrato elettore per il raggiungimento delle aspirazioni individuali, da ottenere, se necessario, in barba a qualsiasi oggettivo criterio.
Si offriva, da una parte, una sorta di polizza assicurativa cui potere ricorrere nei momenti critici della propria carriera, dall’altra un percorso privilegiato – col tempo divenuto indispensabile – per accedere a qualsiasi nomina od incarico, oggetto di designazione da parte del CSM.
Si è così sempre più sviluppata, all’interno della magistratura, accanto alla ordinaria carriera professionale, una carriera parallela, consistente in incarichi e militanza all’interno delle correnti, che permetteva – nei casi ordinari – di acquisire meriti e visibilità da sfruttare poi al momento opportuno e – per coloro che riuscivano anche a raggiungere una posizione di leadership, sia pure in ambito locale – di gestire, in concreto, una consistente fetta di potere nei confronti degli altri colleghi.
Tutto ciò, naturalmente, a scapito di quei magistrati che non avevano tempo e voglia di dedicarsi a questo genere di attività (in genere perché impegnati a tempo pieno sul lavoro!); proprio quelli che, per usare le parole di Mario Almerighi, mettevano sul lavoro “…il massimo della professionalità e della responsabilità fino al rischio della vita…”.
La degenerazione del sistema correntizio si è così inevitabilmente riversata sul CSM che, sottoposto a condizionamenti dai quali non è mai riuscito ad affrancarsi, ha visto man mano attenuarsi nei fatti la funzione di massimo organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati e di difesa da ogni interferenza sull’esercizio delle funzioni giudiziarie, per trasformarsi spesso in una sorta di consiglio di amministrazione, governato da trattative ed accordi e destinato – in molti casi – ad avallare decisioni maturate altrove.
La responsabilità di tale progressiva involuzione deve necessariamente essere attribuita, benché in misura tra loro sensibilmente diversa, a tutte le componenti del CSM, e dunque anche a quelle che, se pure non hanno mancato – nel corso degli anni – di denunziato le contraddizioni del sistema non sono state poi capaci di tradurre tali denunzie in condotte concrete.
Ciò è avvenuto per effetto di fenomeni di trasformismo e di omologazione che hanno interessato tutti i gruppi associativi.
E’ avvenuto in particolare che le idee, costituenti il patrimonio iniziale del Movimento per la Giustizia e volte tra l’altro ad assegnare al CSM funzioni sia di garante istituzionale dell’indipendenza dei giudici, sia di promotore del loro forte impegno professionale indirizzato all’esercizio effettivo del controllo di legalità in ogni contesto (a partire da quello interno) ed alla conseguente tutela dei diritti individuali e collettivi dei cittadini, sono diventate man mano – almeno nominalmente – patrimonio comune dell’intera magistratura associata.
Ma la loro condivisione formale non è mai stata accompagnata da effettiva applicazione nei fatti, come, nel tempo, è risultato evidente dalle modalità di gestione, da parte del CSM, del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Se, da una parte, vi è stata una fioritura sempre più dettagliata di circolari e direttive per rendere più personalizzate ed attendibili le valutazioni di professionalità, dall’altra tali valutazioni hanno comunque ricoperto, nella sostanza, un valore secondario rispetto agli accordi che – soprattutto per gli uffici di rilevanza nazionale, ma poi, a cascata, anche per quella di interesse più circoscritto – venivano di volta in volta stretti tra le componenti togate e laiche del Consiglio.
Le nomine sono così divenute sistematico oggetto di trattative, compromessi e reciproci scambi di favori, a cui talvolta non sono state estranee figure esterne al CSM ed all’Ordine Giudiziario ed appartenenti al potere politico od economico.
Tale situazione invero non ha tardato a divenire oggetto di polemiche e di denunzie a tutti i livelli, oltre che di interventi del Giudice Amministrativo, ma nonostante ciò il sistema spartitorio si è sempre più consolidato all’interno del CSM, con il consenso – esplicito o tacito – di tutte le componenti consiliari, comprese quelle minoritarie – come il Movimento per la Giustizia, in seguito confluito in “Area” – in una logica di compromesso, diretta a salvare il salvabile e a cercare almeno di ottenere la “riduzione del danno”.
E dunque il CSM, da organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati e di difesa da ogni interferenza sull’esercizio delle funzioni giudiziarie, è divenuto esso stesso veicolo del condizionamento esercitato dal sistema delle correnti sui singoli magistrati, posti di fronte alla constatazione che lo sviluppo della loro carriera non sarebbe dipeso tanto da obiettive valutazioni sulle loro qualità professionali e sui risultati conseguiti, quanto piuttosto dalla forza della corrente di appartenenza.
Le circostanze ed i dialoghi emersi dalle indagini sul “caso Palamara” ed ormai più volte riportati in ogni genere di pubblicazioni, sono risultate inequivocabili al riguardo.
Ed è stato così naturale – e le stesse indagini ne hanno data ampia conferma – che i gruppi di potere interni alla magistratura si incontrassero con omologhi gruppi esterni e concordassero con questi iniziative ed azioni comuni, dirette non solo ad orientare le nomine ma anche – in qualche caso – ad elaborare specifiche strategie di interferenza su indagini e processi in corso.
Le conseguenze di tutto ciò sono state devastanti; la crisi di credibilità ha investito pesantemente il CSM e la sua funzione di autogoverno nonché l’intero Ordine Giudiziario, la sua indipendenza, l’autorevolezza della sua azione e delle sue decisioni (e ciò nonostante l’impegno e la professionalità di tantissimi magistrati), soprattutto nei confronti di esponenti del potere politico o di altri poteri dello Stato.
È capitato così di leggere su un quotidiano a diffusione nazionale, a proposito di una richiesta di rinvio a giudizio, avanzata dal Procuratore della Repubblica di Palermo nei confronti dell’ex ministro dell’Interno, frasi come questa:
“…Facciamo finta di non vedere che la giustizia è nelle mani di una banda di sciagurati che purtroppo fanno capo (spero a sua insaputa) al presidente Mattarella in quanto capo del Csm che, come tale, almeno formalmente, dovrebbe avallare le loro decisioni…”.
Non è un caso però che un giudizio così indiscriminato e pesante – al limite del vilipendio – sull’intero Ordine Giudiziario sia stato espresso in riferimento ad un procedimento giudiziario riguardante un esponente politico di primo piano.
Ciò evidenzia infatti che gli effetti più gravi e devastanti caduti sulla magistratura hanno determinato un sensibile indebolimento – quantomeno sul piano del riconoscimento sociale – dell’azione di controllo di legalità che i magistrati sono chiamati istituzionalmente ad operare, soprattutto nei confronti del potere politico e rispetto al quale quest’ultimo si è sempre mostrato molto insofferente, soprattutto nei casi in cui la specifica attività di controllo si rivelava realmente incisiva ed efficace.
Tornano così un’altra volta eloquenti le parole di Mario Almerighi quando, nello stesso articolo prima ricordato, rilevava che “…gran parte delle forze politiche, supportate dai media, identificavano il magistrato modello nel c.d. giudice silente, impegnato a fare o a non fare, non importa, purché non costringesse le cronache ad occuparsi di fatti illeciti concernenti esponenti del potere politico o implicanti conseguenze sulla politica…”.
E difatti, fin dal primo momento in cui l’indipendenza della magistratura – costituzionalmente garantita – ha iniziato a tradursi in azione concreta, il potere politico ha rapidamente adottato le proprie contromisure per neutralizzarne i risultati, ed in proposito la storia delle notissime inchieste sui petroli, portate avanti nel 1974 da Mario Almerighi e dai suoi colleghi di Genova, appare particolarmente significativa.
Da allora, nel corso degli anni, sono stati molteplici gli strumenti e gli espedienti messi in campo per contrastare l’efficienza dell’azione giudiziaria e le sue autonome valutazioni.
Si è più volte cercata la via di riforme costituzionali dirette –sotto varie forme – a comprimerne l’indipendenza (come avveniva, all’epoca dell’articolo di Almerighi, con i progetti di riforma elaborati dalla Commissione Bicamerale che era stata in proposito istituita).
Ma questa strada non è mai stata percorsa fino in fondo perché è comunque prevalsa sempre la considerazione della impopolarità di norme che potessero limitare l’autonomia e l’operatività di una magistratura, ancora destinataria di una accettabile percentuale di considerazione pubblica.
Molto più produttiva, per i suoi effetti depotenzianti, è stata la soluzione – adottata, in un modo o nell’altro, da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni – di una legislazione ordinaria diretta costantemente a complicare ed appesantire l’azione giudiziaria, soprattutto quella inquirente (con il pretesto di un malinteso e strumentale “garantismo”) senza adeguati contrappesi sul piano della semplificazione degli adempimenti formali e dei tempi di trattazione dei procedimenti, così rendendo sempre meno realizzabile l’obiettivo di decisioni definitive adottate entro termini accettabili.
A sua volta, il sistema di interferenze esterne nella gestione delle nomine da parte del CSM, emerso in modo sistematico e desolante dal “caso Palamara”, ha portato – come si è visto prima – al totale discredito dell’autogoverno della magistratura pur se in concreto ha fortunatamente mantenuto una incidenza assai limitata sull’esercizio indipendente della giurisdizione da parte della generalità dei magistrati.
Ma oggi è proprio il discredito, strumentalmente esteso – attraverso una abile propaganda mediatica – dalla gestione del “palazzo” all’attività dei singoli giudici, a costituire lo strumento più forte in mano al potere per porre finalmente in atto il disegno di riduzione dell’autonomia costituzionale della magistratura.
E’ tornato quindi d’attualità, tra l’altro, il ricorrente progetto della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante che in realtà racchiude, attraverso l’utilizzo di una formula ipocrita e fuorviante, il chiaro disegno di sottoporre a controllo esterno l’attività del Pubblico Ministero (vero “spauracchio” della politica) laddove sarebbe al contrario necessario proteggerne e rafforzarne l’autonomia, la professionalità e l’autorevolezza sia al di fuori che al di dentro dello stesso Ordine Giudiziario.
Ma soprattutto il veleno prodotto dal caso Palamara, ed in particolare dalla diffusione indiscriminata, e spesso tendenziosa, delle conversazioni personali e telematiche intercettate, ha portato al crollo della fiducia collettiva verso l’azione della magistratura, che invero era già stata posta a dura prova da altre gravi vicende di abusi e corruzione nell’ambito giudiziario, venute di recente alla luce.
E poco conta riflettere sul fatto che, se sono venute alla luce tante condotte deplorevoli ed imbarazzanti per l’intera magistratura, ciò si deva soprattutto all’azione determinata e senza riguardi della magistratura inquirente (e indipendente!), che non ha mai ceduto a tentazioni di copertura corporativa per la quale “i panni sporchi si lavano in casa”!
E dunque si rende quanto mai necessario, se si vogliono mantenere accettabili livelli di controllo della legalità, che la magistratura risalga la china della fiducia e della considerazione pubblica, a partire dal recupero di credibilità da parte dell’organo di autogoverno.
Ne costituisce però un indispensabile presupposto l’adozione di adeguate riforme ordinamentali in grado di incidere sul funzionamento del CSM, a partire dal suo sistema elettorale, e che risultino fondate su una corretta ed onesta valutazione degli obiettivi da perseguire e dei migliori strumenti per raggiungerli, tenendo ben presente la deleteria esperienza della riforma del 2006, che – anziché migliorare – ha indiscutibilmente aggravato le criticità del sistema, sia in relazione ai criteri di elezione del Consiglio, sia a quelli di conferimento degli incarichi direttivi.
Ed a proposito di soluzioni controproducenti, tra queste rientrerebbe sicuramente – con riferimento al sistema elettorale – il ricorso, da più parti invocato, a forme totali o parziali di sorteggio che, a prescindere da chiari profili di incostituzionalità, rappresenterebbe una evidente e clamorosa manifestazione di sfiducia verso la capacità dei giudici di operare una designazione efficace dei propri rappresentanti, senza ottenere – d’altra parte – alcuna effettiva garanzia di miglioramento della autorevolezza e della funzionalità del sistema.
Appare invece necessario che i candidati possano essere direttamente conosciuti dall’elettorato per i loro connotati professionali e personali, con il passaggio dall’illogico attuale collegio unico nazionale alla suddivisione territoriale dei collegi stessi, e che un presupposto necessario per la candidatura si possa individuare nel possesso di un profilo professionale ineccepibile e verificabile.
Per quanto poi riguarda i criteri per l’assegnazione degli incarichi direttivi, la loro disciplina dovrebbe soprattutto orientarsi sul principio fissato dall’art. 107, co 3, della Costituzione, secondo il quale “I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”, e dunque sradicare la concezione stessa di carriera.
Gli incarichi direttivi andrebbero pertanto esclusivamente intesi come servizi temporanei, destinati a non potere essere ripetuto in altre sedi o in altre funzioni, se non dopo il decorso di un consistente intervallo di tempo.
I criteri di designazione dovrebbero poi basarsi fondamentalmente su elementi di valutazione obiettivi e documentabili, da attingere soprattutto dai dati provenienti dall’esercizio effettivo della giurisdizione (o, a secondo i casi, dell’attività d’indagine) e dai risultati conseguiti, con recupero – quantomeno parziale – del peso dell’anzianità e con ricorso ai rapporti informativi solo per la valutazione dei profili comportamentali e per l’apporto eventuale di elementi straordinari positivi o negativi.
È chiaro che si tratta di indicazioni quanto mai sommarie, ricavate dall’esperienza personale di chi scrive – ed ovviamente suscettibili di confronto ed approfondimento – che sono state mosse dall’intento di prospettare ipotesi di soluzioni per disinnescare lo strapotere delle correnti ed incoraggiare al contrario l’impegno sul campo di ogni magistrato.
Ma la migliore conclusione di queste disordinate riflessioni ad alta voce, riguardanti il momento molto difficile attualmente attraversato dalla magistratura – e dalla funzione giudiziaria della quale la magistratura è titolare – si ritrova ancora nelle parole di Mario Almerighi che, ricordando le prime battaglie politiche del Movimento, scriveva che “…chiedemmo consenso non per offrire assistenza, ma per garantire il rispetto delle regole, per chiedere ai colleghi maggiori sacrifici nell’impegno professionale e prospettando l’esistenza di una questione morale anche nella magistratura…”.
I fatti hanno purtroppo dimostrato, negli anni successivi, che a tale questione non è mai stato data l’indispensabile rilevanza, nemmeno dai gruppi in possesso della maggiore sensibilità a raccoglierla, e che oggi da questo tema si dovrà necessariamente ripartire per una effettiva risalita della china.