Contro… “corrente”

1939-2017

di Sergio Materia

Con questo scritto vogliamo ricordare Mario Almerighi. Splendido giudice e uomo sempre con la schiena dritta. Con lui, sotto la sua guida, abbiamo attraversato da magistrati gli anni ottanta e novanta. La crisi della giustizia diventava sempre più evidente e cercavamo risposte. Per noi, per fare del nostro lavoro qualcosa che riscattasse ai nostri stessi occhi l’esercizio di un mestiere che sa anche essere cattivo, freddo, burocratico. Ma soprattutto perché ci sentivamo insieme magistrati e cittadini e decidemmo che non ci bastava, non doveva bastarci, fare come meglio potevamo il nostro mestiere mentre fuori il sistema democratico era squassato dai lasciti del terrorismo, dai poteri occulti e dalla corruzione. E dal tirare a campare di molti che eravamo costretti a chiamare colleghi. Rivendicavamo il diritto di occuparci di politica, nel senso più alto e nobile della parola: lavorare e discutere del nostro lavoro con continua attenzione verso i principi costituzionali, verso gli interessi della collettività dei cittadini.
Mario capì, insieme a noi, che di questa profonda crisi la magistratura non era la soluzione ma una parte importante. La sua grande passione civile, per lui pari solo a quella per il mare, era una componente del suo essere magistrato. Non si poteva essere un buon magistrato senza alzare lo sguardo dalle carte e dai processi e senza preoccuparsi dell’impatto della giurisdizione sulla salute delle istituzioni e della democrazia. La magistratura associata già dalla metà degli anni settanta aveva sposato questa posizione, ma la spinta rinnovatrice si era persa ed era prevalsa una politica associativa fatta di chiusure, pavidità, convenienze, burocratismo, cecità, autotutela. In una parola, fatta di un corporativismo opaco, capace solo di difesa.
Due parole risuonano ancora, piagnucolose e insopportabili, usate in ogni occasione in cui venisse utile fare del vittimismo: “delegittimazione” e “sovraesposizione” (dei magistrati, ovviamente). Si predicavano a parole indipendenza e autonomia (dio solo sa quale sia la differenza) ma poi non si sapeva cosa farne se la parola d’ordine era, in sostanza, quella di non rischiare mai, di non disturbare il manovratore, di comportarsi sempre in modo da non provocare polemiche, interne ed esterne alla corporazione.
Era una situazione soffocante e Mario non solo lo capì presto ma lavorò per trovare una strada nuova. La via maestra era anzitutto quella di un radicalismo etico senza intolleranza e supponenza, e senza scelte aprioristiche di ordine ideologico. Unico riferimento era la Costituzione, troppo a lungo tradita anche tra i magistrati, dalla loro associazione e, per caduta, dal Consiglio Superiore che inevitabilmente, ma non controvoglia, era diretta espressione delle correnti interne alla corporazione.
Oggi è chiaro a tutti quali danni abbia fatto il correntismo. Nate negli anni settanta come opzioni di ordine culturale e politico (nel senso di scelte di fondo sul modo di essere della magistratura) presto le correnti erano diventate uno strumento per esercitare il potere interno alla corporazione. Appartenere in modo fedele ad una o all’altra equivaleva al potersi aspettare al momento opportuno il sostegno per la nomina in un posto direttivo o semidirettivo, o per andare in Cassazione.
Oggi il caso Palamara ha svelato a quali abissi di squallore il potere delle correnti abbia portato. Ma già allora era chiara, per chi volesse vedere, l’esistenza di un patto spartitorio tra le correnti. E poco male se i prescelti fossero spinti in alto dalle correnti (o dai loro esponenti più potenti, più forti elettoralmente) per i loro meriti professionali. Molto più spesso era la sola appartenenza ad un gruppo associativo a fare di un magistrato qualsiasi un candidato imbattibile per il posto cui ambiva. La volta dopo sarebbe toccato ad un’altra corrente scegliere la persona da promuovere. Il patto spartitorio diventava così vero e proprio voto di scambio.
L’importante era (ed è) che l’interessato non fosse incappato in qualche infortunio, che non fosse stato oggetto di polemica per qualche indagine o processo contro qualche personaggio politico o parapolitico. Insomma, che non fosse noto come davvero indipendente e libero da timori reverenziali. Anche perché a lungo il criterio dominante per essere promosso è stato la cosiddetta anzianità senza demerito, che fu applicato anche in occasione della scelta tra Antonino Meli e Giovanni Falcone per la carica di capo dell’ufficio Istruzione di Palermo alla fine degli anni ottanta. E quindi il consiglio implicito ai magistrati era: tenetevi alla larga dai processi che possono crearvi problemi, scegliete la soluzione più conservativa e più conveniente per voi. E così spesso i magistrati per sembrare equilibrati si trasformavano in equilibristi, anche a rischio del ridicolo. E i primi a fare il vuoto intorno a chi si “sovraesponeva” rischiando di “delegittimare” la magistratura erano proprio i colleghi, che volevano continuare a vivere tranquilli aspettando solo di invecchiare per poter finalmente arrivare a comandare qualcosa e per poter avere sulla porta del loro ufficio la scritta “Presidente” o “Procuratore della Repubblica”. Per poter avere la loro fetta di miserabile potere.
Il sistema era diretto dai capicorrente e dai loro stretti seguaci. Non solo negli uffici importanti ma anche in posti di provincia, e forse ancora di più, i capi degli uffici spesso erano personaggi di modestissima qualità professionale ma soprattutto etica e personale, ai quali della giustizia come la Costituzione la richiede importava il giusto, e che forse nemmeno ne capivano il significato.
E’ a tutto questo che Mario si ribellò. E su suo impulso nacque un nuovo gruppo di magistrati che provò a rovesciare la logica dell’appartenenza correntizia. A partire dalla apertura a chi non era magistrato: avvocati, intellettuali, insomma tutti coloro che cercavano non potere o protezione, ma un luogo di discussione, di scambio, di costruzione di una nuova cultura della giurisdizione. Un posto pulito, finalmente.
Si chiamò Movimento per la Giustizia, e già con il nome dimostrava di essere un gruppo aperto, non autoreferenziale ma pronto ad accogliere le opinioni e i contributi dei “laici”. Si scelse di restare all’interno dell’associazione nazionale magistrati per combatterne il degrado dall’interno. Ma dell’associazione vedevamo il limite intrinseco: tante posizioni politico/culturali molto distanti tra di loro non potevano (e non possono ancora oggi, come i fatti hanno dimostrato) che trovare l’unico loro possibile punto d’incontro nell’essere puro e semplice sindacato, quindi nell’essere corporazione, senza respiro e senza idealità che non fossero solo declamate con una retorica insopportabile. Senza fare mai niente che andasse nella direzione di elevare la professionalità e la affidabilità degli appartenenti, ed anzi coprendo sempre questo o quel magistrato che deragliava, e chiudendosi a riccio davanti alle critiche. Era sempre “delegittimazione”.
Dal punto di vista dei risultati elettorali il risultato fu decisamente buono e si riuscì a far eleggere al CSM eccellenti magistrati. Ma il generoso tentativo alla fine è fallito, ed è forse inevitabile che così fosse. Il gruppo ha perso per strada la sua carica innovativa, è diventato una corrente, pur restando immune dal degrado clientelare ed etico delle altre.
Le correnti tradizionali hanno vinto, e se oggi si è arrivati a proporre il sistema dell’estrazione a sorte per il Consiglio Superiore della Magistratura questo equivale alla presa d’atto, da una parte della magistratura, della incapacità del sistema di autoriformarsi, nei comportamenti prima ancora che nella forma.
E siamo arrivati oggi al caso Palamara e a quello che ha scoperchiato. Il caso Palamara non ha dimostrato in maniera evidente a tutti soltanto l’esistenza del sistema spartitorio tra le correnti e i loro vertici. Il caso Palamara (ma dovremmo aggiungere i nomi dei tanti magistrati coinvolti) svela una trama di relazioni illecite che sono all’attenzione della magistratura penale. Svela quello che era già chiarissimo da tanto tempo: l’esistenza di una questione morale nella magistratura. Prima di tutto il resto, fu questo aspetto a far insorgere Mario Almerighi e tutti noi che condividemmo le sue scelte. La cecità della magistratura associata era spregevole soprattutto su questo versante. Prima ancora che preparazione tecnica e professionale, scrivemmo e dicemmo tante volte, al magistrato si richiede un livello di etica personale quantomeno compatibile con il suo mestiere. Per la sua credibilità quando giudica il prossimo, per la tutela agli occhi dei cittadini della dignità della giustizia e delle istituzioni in generale. Perché così deve essere. E invece.
Quando un magistrato finiva sotto indagine o agli arresti per fatti di corruzione o per avere comunque abusato del suo ufficio, mai o quasi mai la reazione tra di noi era di sorpresa e di sconcerto. Noi dicevamo che i magistrati possono fare politica, nel senso alto che si è detto. Qualcuno invece la faceva davvero e nel senso peggiore, fiancheggiando l’uno o l’altro partito o uomo politico con iniziative strumentali. I cosiddetti magistrati “chiacchierati” erano tanti e noti a tutti, fuori e dentro la categoria. Di molti, soprattutto a Roma, era nota l’appartenenza politica, la “vicinanza” a questo o quell’uomo politico. Era noto come avessero pilotato, attraverso un impiego strumentale e intimidatorio dei loro poteri, l’esito di complicate e importanti vicende economico finanziarie.
Era nota la disponibilità alla corruzione.
Per Sergio Castellari, consulente di grandi imprese, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali, trovato morto il 25 febbraio 1993 a Sacrofano vicino Roma, era stato richiesto il carcere da un pubblico ministero che cercava appigli per trasferire da Milano e Roma il processo Enimont. Castellari morendo, probabilmente suicida e sicuramente innocente rispetto alle cervellotiche imputazioni che lo riguardavano, lasciò una lettera: “Non posso accettare di essere inquisito da organi e persone di cui è nota l’ acquiescenza e la connivenza al sistema e la diretta e profonda corruzione”. Nota a tutti, effettivamente. Impossibile non lo fosse agli organi di autogoverno della magistratura che, dopo quell’episodio, promossero a capo di una Procura della Repubblica quel magistrato. Che poi fu arrestato per corruzione e patteggiò la pena dopo una lunghissima custodia cautelare, giustificata tra l’altro dagli artifici con i quali aveva fino ad allora occultato i notevolissimi proventi della corruzione.
E’ un episodio emblematico. La ricaduta finale del corporativismo che diventa cieco perché non vuole, non deve vedere. Che protegge tutti sempre, salvo qualche raro sprovveduto che esagera senza averne il potere e garantirsi le protezioni.
Ma lasciando da parte la vera e propria corruzione, certo è che in cialtroni e bellimbusti la corporazione ha abbondato. Tutti noi ne abbiamo visto all’opera qualcuno. E la conclusione era ed è netta: la capacità professionale conta fino ad un certo punto, la reputazione (quella reale, non quella che risultava dai fascicoli personali sempre pieni solo di elogi) non conta quasi niente. Molto di più conta l’essere cliente e vassallo di quello o quell’altro esponente o sottoesponente di una corrente.
Il solo parlare di una questione morale nella magistratura avrebbe dovuto provocare una ribellione collettiva da parte dei “colleghi” e delle correnti. E invece è sempre prevalsa una reazione di pura conservazione del sistema: Troncare, sopire, minimizzare. E per osmosi l’infezione si è diffusa, si è estesa ai più giovani, ed è stato il disastro. Si è fatto credere ai giovani che fare il giudice senza grilli per la testa seguendo la corrente (in tutti i sensi) è la via normale, quella giusta. E i giovani si sono adeguati volentieri, senza sapere e senza accorgersi che deve esserci una strada migliore. Un’ulteriore esempio di darwinismo sociale.
Per contagio da contatto ravvicinato, per invidia piccolo borghese, per imitazione, i mali della politica peggiore hanno raggiunto la magistratura. E oggi, appunto, il disastro è sotto gli occhi di tutti.
Ma per cosa, poi? Qualcuno ci ha guadagnato in denaro, in opportunità per sé o per i familiari (chi non si preoccupa che i figli trovino lavoro?). Qualcuno ha fatto carriera in politica.
Ma gli altri, tutti gli altri, hanno svenduto la propria dignità (bisogna averne, del resto) in cambio di quasi nulla. Palamara non si è preso con la forza la presidenza dell’ANM. Cosimo Ferri è stato il più votato alle elezioni dell’associazione del 2012 con 1199 voti, il numero più alto di sempre.
Insomma: l’autogoverno della magistratura descritto in costituzione era ed è il sistema migliore, ma quello che abbiamo conosciuto e visto all’opera è stato pessimo. Parafrasando Winston Churchill, l’autogoverno è il peggior sistema possibile, ma non ce n’è uno migliore. La Costituzione anche su questo è stata tradita, e non sarà facile rimediare.
Oggi è definitivamente chiaro che i danni non sono stati solo per qualche magistrato o per una giusta assegnazione di posti. Il danno, enorme, è stato per tutta la categoria. E a cadere, ovviamente, lo è stato per la qualità della giurisdizione e quindi per la collettività. Forse è ingiusto ed eccessivo parlare di complessiva inaffidabilità della magistratura, perché ci sono certamente persone che lavorano seriamente. Ma di sicuro la categoria oggi avrebbe bisogno di un profondo esame collettivo di coscienza che invece, come è evidente, è incapace di fare.

Di fronte a questo quadro oggi Mario Almerighi avrebbe l’amara ma grande soddisfazione di poter dire: perché non avete voluto vedere e ascoltare chi vi indicava il vero? E direbbe anche: la magistratura questa vergogna la merita tutta.
E’ stata compromessa la qualità della funzione giudiziaria che ha per i cittadini una valenza anche simbolica fondamentale. Una sentenza giusta è un omaggio alla democrazia, una ingiusta, anche riguardi un piccolo fatto di periferia, è una ferita che anche dopo anni resta aperta. Bisogna evitare in ogni modo che ad impersonare la giustizia siano persone men che limpide, mediocri, pronte al compromesso o a scegliere non la via più giusta ma la più comoda per se stessi. Forse i magistrati così non sono tanti, ma sono comunque troppi.
Scrivendo di Mario e di queste cose, anche per chi ha visto scadere il proprio tempo l’emozione è forte. Lui ha dimostrato anche da giudice cosa vuol dire la schiena dritta e l’onestà intellettuale, il coraggio di andare controcorrente in nome di un interesse collettivo che pochi con lui vollero vedere. Basta leggere la bellissima avventura processuale che Mario ha raccontato nel suo “Mistero di Stato”, un libro del 2010 sul processo per la morte dell’ispettore di polizia Samuele Donatoni durante il sequestro di Giuseppe Soffiantini.
Ecco: Mario era un grande giudice perché coglieva in modo naturale la drammaticità del giudicare, perché di un processo vedeva gli angoli più nascosti e più scomodi. Di un processo, come della realtà politico istituzionale nella quale viveva, si faceva carico fino in fondo come il giudice deve sempre fare, non cercando mai le soluzioni più comode ma quelle più giuste, nei limiti in cui la vera e originaria giustizia riesce ad entrare in un’aula di giustizia. Ma questo è un discorso più grande di noi.

Il degrado dell’ANM e dell’autogoverno nel suo complesso non ha soltanto determinato guasti interni alla corporazione, ma si è esteso per contagio a tutti gli aspetti della giurisdizione. E oggi, anche se per incanto i mali dell’ANM fossero sanati di un colpo, ci troveremmo di fronte ad un panorama di macerie e di questioni irrisolte.
Come Mario Almerighi sosteneva negli anni ottanta e novanta, mentre le correnti si dedicavano solo alle loro operazioni di bassa cucina nessuno si preoccupava di indirizzare la magistratura e la giustizia verso l’attuazione dei principi costituzionali. Nessuno spiegava ai magistrati, né prima né dopo il concorso, cosa dovesse significare esserlo e lavorare in nome del popolo italiano. Nessuna politica di indirizzo, tutto era ed è lasciato alla libera interpretazione del singolo. E dunque tutto era ed è consentito quanto al modo di essere, prima ancora che di fare ed operare dei magistrati. Sarebbe bastato ricordare Piero Calamandrei o anche Dante Troisi, e insegnare quelle riflessioni prima ancora delle regole del diritto. E poi valutare i magistrati anche in base al modo di esserlo e non solo in base a singoli episodi.
Mario sosteneva che dovesse essere il Consiglio Superiore, quale vertice del sistema di autogoverno, a farsi scuola di vita professionale per i magistrati, a dettare non certo regole rigide di condotta ma linee guida. Una corporazione che non vuole o non è capace di ragionare sul proprio modo di essere e dover essere è cieca e sorda e finisce per immiserirsi.
Ma il concetto di autonomia e di indipendenza è stato distorto e strumentalizzato a tal punto che anche discutere di questi temi era giudicato inammissibile per lesa maestà. E così, diceva Mario, l’indipendenza è diventata arbitrio e ognuno vive il mestiere del giudice come ritiene meglio o, peggio, come gli conviene. Ed è successo che autentici malfattori (a Roma gli esempi potrebbero essere tanti) hanno “liberamente” interpretato il loro ruolo facendone un supporto ai propri o – peggio – altrui disegni di potere, nel silenzio complice degli organi del cosiddetto autogoverno.
Certo, per una utile discussione su questi aspetti un utile interlocutore era la politica. Ma da quel fronte non c’era – né allora né in seguito – nessuna intenzione o forse nessuna capacità di affrontare il tema. E’ sempre stato molto più conveniente avere a che fare con una magistratura tutto sommato non autorevole, utilizzandone le contraddizioni, i contrasti interni e gli insuccessi. E screditandola anche attraverso i media, anche trovando il modo di ritornare con enfasi su casi di cronaca già decisi in via definitiva ma insinuando il dubbio di errori giudiziari.
Per tutto questo è sempre mancata una vera proposta politica in tema di giustizia. Come sappiamo si è inseguita l’emergenza, con interventi raffazzonati sui codici soprattutto per rimediare alla interminabile durata dei processi civili e penali.
Ma così ogni magistrato è rimasto solo, se ne ha voglia e ne è capace, a ragionare sul senso del suo mestiere. Non è facile, non solo perché la materia è sostanzialmente un’intrusa e “non rientra nel programma”. Però se non lo fai il senso del mestiere di giudice si esaurisce nell’atto stesso di farlo, e questo vuol dire alienazione.
Questo tra l’altro comporta una inversione di senso per cui il diritto diventa non più una sovrastruttura ma un “a priori”. La realtà è letta in base al diritto, il giudizio sui fatti deve partire (secondo il popolo italiano?) anzitutto da una valutazione giuridica. Le altre letture della realtà sono profane. In barba, tra l’altro, al principio di tipicità degli illeciti penali. Di qui tanti “teoremi” giudiziari che sono tali, prima ancora che sul piano della prova, su quello dell’interpretazione storica e giudiziaria e del fatto. Una dimostrazione di hybris oltre che di ignoranza. E infatti il pubblico ministero che di volta in volta è autore e promotore del teorema (nel senso che ora si è detto) verso chi dubita rivolge tutta la sua sarcastica supponenza e il suo implicito disprezzo, se non addirittura l’accusa di essere dalla parte del male. Non solo fino all’immancabile crollo giudiziario della sua creatura, ma anche dopo.
Era a tutto questo che la proposta di Mario Almerighi e dei suoi compagni di strada intendeva ovviare. Senza aspettative miracolistiche, ma con l’intenzione di fare dei magistrati una categoria con una propria cultura collettiva e una propria coscienza critica.
Non era un compito facile. La base di partenza non era (e non è) favorevole. La crescita della consapevolezza di sé viene dal confronto, ma il giudice non è abituato a mettersi in discussione e comunque questo non è previsto dalla sua collocazione istituzionale.
Il lavoro del giudice non prevede un confronto dialettico né con la realtà né con gli altri, salvo i casi di decisione collegiale che però riguarda solo il singolo caso; non è un lavoro che preveda dialogo, confronto e tanto meno, e soprattutto, verifiche esterne all’esame del singolo caso. E’ un lavoro ex cathedra, perché così deve essere. Se è così, il lavoro del giudice rischia di tenerlo per un’intera vita professionale in un equivoco sulle proprie capacità, credibilità, affidabilità, serietà.
E rischia di generare nella persona del giudice una lunga illusione e molta presunzione. Un po’ diverso forse è per il pubblico ministero, che deve almeno confrontarsi anche se non dialogare.
Ecco perché solo collettivamente i magistrati potrebbero, e le loro istituzione dovrebbero, individuare sedi e modi per una discussione interna alla corporazione. In fondo l’attività giudiziaria è parte delle politiche sociali, nel senso che è una delle sedi privilegiate per l’affermazione del principio di uguaglianza come è previsto dal secondo comma dell’art. 3 della costituzione. Questo compito spetterebbe all’ ANM, che pretende di non essere semplice sindacato. Ma soprattutto al CSM, invece sordo e incapace.
Una discussione del genere servirebbe anche come necessaria base di partenza dei dibattiti sulle riforme ordinamentali: che cosa vogliamo dalla giustizia? Che processi vogliamo, e dunque che giudici vogliamo? Domande che sembrano ovvie ma che nessuno si fa.
Si può fare anche un’altra considerazione, e non è detto che sia solo una boutade. Tutti consideriamo ovvio che il lavoro dei giudici sia orientato dalla giurisprudenza, che dà punti di riferimento per come interpretare le leggi. Nessuna imposizione, ma indicazioni su come fare. Non sarebbe altrettanto normale che l’organo di autogoverno desse indicazioni sul come essere dei giudici? E non basta la giurisprudenza disciplinare, che dice solo cosa “non” fare e indirettamente come non essere. E lo dice dopo.
Una vera e profonda riforma della giustizia non può essere solo riforma dei codici o dell’Ordinamento giudiziario o del CSM. Il caso Palamara è la riprova che bisogna risanare andando in profondità, affidandosi a giuristi di altissimo livello ma anche a studiosi delle istituzioni politiche.
Quella di Mario e dei suoi compagni di strada sembrò allora una bestemmia. E’ vero, erano anni in cui la magistratura era sotto attacco, la politica peggiore e i poteri occulti e criminali lavoravano per liberarsi del controllo giudiziario, ma proprio per questo sarebbe stato necessario un salto di qualità sul piano culturale e istituzionale. Invece non si andò oltre la solita reazione corporativa. Non si volle vedere che i migliori alleati dei poteri occulti e criminali che attaccavano le istituzioni erano proprio nei palazzi di giustizia. E siamo arrivati ad oggi.

C’era una nave…

di Adriano Sansa

1939-2017

Navi cariche di petrolio ferme in rada, scuole e istituti di ricovero al lumicino. Mario aveva capito presto la gravità della situazione. La tolleranza verso chi speculava aspettando l’ aumento dei prezzi era sospetta. La prima perquisizione eseguita a Genova aveva confermato gli indizi di una vasta rete di abusi e di corruzione: favori dei governi ai petrolieri- con leggi e decreti, soprattutto in ambito fiscale- in cambio di finanziamenti ai partiti di maggioranza. Un quadro sconvolgente, un mercimonio della legge. Bisognava procedere rapidamente, completare l’acquisizione delle prove, anche per anticipare le iniziative di insabbiamento che sarebbero probabilmente arrivate, come in effetti arrivarono inesorabilmente nei mesi successivi. Ad Almerighi eravamo stati assegnati a supporto Carlo Brusco ed io. Occorreva scendere a Roma, perquisire e occorrendo sequestrare documenti nella sede dell’Unione petrolifera. Benché ci sembrasse inverosimile, tenemmo conto della possibilità d’essere controllati: anche questo si rivelò in seguito vero e ci venne confermato da Sandro Pertini, allora Presidente della Camera. ” Quei cornuti che ci ascoltano..”, ci avrebbe detto quando gli portammo gli atti, accompagnandoci nella più sicura stireria dell’alloggio di Montecitorio. Ma questo sarebbe accaduto dopo. Quella sera, vigilia della spedizione a Roma che Mario aveva organizzato con rapidità e risolutezza, ci trovammo in una piazzetta del quartiere di Albaro. Il riparo a nostra disposizione fu la Giulietta di Mario. Là raccontò quel che aveva fatto e predisposto, perché ne fossimo al corrente, collaboratori e custodi del segreto di una vicenda che avrebbe suscitato scandalo, ma non abbastanza da indurre un cambiamento del costume corrotto. Il giorno seguente andò con un gruppo di fidati finanzieri nella Capitale, ottenendo prove schiaccianti.
Mi resta così il ricordo di quel giovane collega, pacato eppure teso, indignato e profondamente determinato a procedere contro poteri torbidi e soverchianti: molto più grandi di lui, verrebbe da dire, se non fosse invece che il tempo ha saputo configurare le giuste proporzioni e stabilire dove stava la sola possibile grandezza.

In pochi verso la meta

di Gioacchino Natoli

1939-2017

Mario Almerighi, per chiunque ripensi alla sua vita, rappresenta sempre più una rara avis in quella schiera limitata di esseri umani, capace di vedere – con lucida perspicuità – la sostanza vera dei problemi più rilevanti da affrontare e, possibilmente, risolvere.
Ho volutamente usato il tempo presente, giacché ritengo il suo pensiero tuttora capace di generare risultati fecondi, indipendentemente da ciò che finora è accaduto per l’oggettiva “limitatezza” di chi abbia tentato di seguirne le indicazioni.
Con riguardo alla magistratura – perché di essa egli si è occupato in tutta la sua esistenza terrena – la summa del suo pensiero è racchiusa (a mio avviso) nel primo documento del Movimento per la Giustizia, elaborato a Roma il 16 aprile 1988, che era rivolto (o forse dedicato) a tutte le “componenti della società” – e, significativamente, non soltanto ai magistrati – per un “confronto aperto” sulle problematiche di Indipendenza, Terzietà, Dirigenza, Professionalità, Responsabilità e Autogoverno.
Tuttavia, preliminare e fondamentale Mario riteneva essere la “questione morale” – contro le deviazioni delle prassi correntizie – sia come rifiuto di ogni forma di spartizione e di lottizzazione del potere nonché di uso dello stesso a fini di vantaggio individuale o corporativo, sia come rifiuto di ogni forma di collateralismo con centri di interesse o politici per comprimere o influenzare l’indipendenza e l’imparzialità della funzione del Giudice.
Il contenuto di quel pensiero, se pur a distanza di oltre trent’anni, possiede ancora oggi una carica vitale ed una lungimiranza di progettualità e di suggerimenti, che lasciano tutti profondamente sgomenti alla luce della triste stagione che sta vivendo la Magistratura nel suo rapporto con la società civile e con le stesse Istituzioni.
Mario, invero, si era forgiato e temprato nelle oscure stagioni del terrorismo, della mafia, della P2 e della corruzione degli anni Settanta-Novanta (le quali non avevano risparmiato neppure il mondo giudiziario), ed ha voluto indicare – mediante l’esempio della sua vita professionale e delle sue scelte personali – un “progetto di azione” agli uomini di buona volontà della migliore magistratura, che ha certamente peccato di generoso ottimismo circa le “qualità” caratteriali necessarie per realizzarlo.
Per tale motivo, forse, quel progetto non è stato ancora percorso, giacché richiede forti gambe, schiene diritte, cuori nobili e cervelli scevri da secondi fini: qualità, tutte, che Mario possedeva in larga misura e che aveva riconosciuto in taluni, rari, esempi di compagni di viaggio scomparsi come lui, che sono risultati, però, ancora pochi per raggiungere la meta…

Mario Almerighi ed il 24 marzo Le riflessioni di un avvocato

di Rosalba Turco

1939-2017

Incontrare Mario Almerighi agli inizi della mia attività di avvocato, nell’anno 1984, mi ha dato conferma di quello che pensavo costituisse per me la giustizia: un valore assoluto, sacro, da pretendere e perseguire attraverso i suoi amministratori.
Posso affermare che nei lunghi anni della mia professione sono entrata in contatto con diversi magistrati constatando, nella maggior parte dei casi, la loro serietà e preparazione nell’amministrare la giustizia. Altre volte mi sono anche dovuta scontrare con alcuni di loro che trattavano il processo in modo frettoloso e poco approfondito ma, anche in tali frangenti, la finalità era sempre quella di giungere ad una definizione ritenuta di giustizia, seguendo i principi dell’autonomia e della indipendenza del magistrato, sanciti dalla Costituzione.
E’ stato, pertanto, davvero deludente e non privo di amarezza, ad un certo punto del mio percorso professionale, scoprire che accanto ad un giudice con le qualità e gli ideali di giustizia di Mario Almerighi e ad altri colleghi con lui in sintonia, vi fossero dei magistrati che avevano scelto di utilizzare la propria indipendenza ed autonomia, per garantirsi, attraverso logiche correntizie “deviate”, posizioni di potere “politico” e di prestigio non meritato.
Tali condotte hanno influito negativamente non solo sull’immagine ma anche sull’operato della magistratura, disvalore che appare aver raggiunto l’apice ai nostri giorni con le rivelazioni di condotte inopportune da parte di magistrati, portate all’attenzione dal caso “Palamara”.
Mario Almerighi, insieme ad altri suoi colleghi, ha strenuamente combattuto quella logica correntizia che ha imposto il suo potere per favorire nomine ai vertici delle Procure, trasferimenti di magistrati in altre sedi e cosi via, a prescindere dai meriti dei predestinati.
Si può ricordare come egli, insieme ai magistrati del Movimento per la Giustizia, già nel lontano 1992, nel programma elettorale per il rinnovo del cdc ANM del 22/24 marzo, scriveva “Crisi della politica è innanzitutto crisi della cultura. Durante il loro percorso le correnti tradizionali sono rimaste vittime di tale crisi generale che ha investito il paese.
Il criterio dell’appartenenza ormai si coniuga con la logica del potere degli apparati divenuti simulacri privi di contenuti ed utili in chiave meramente elettoralistica per la conservazione di se stessi. … Non è più credibile alzare la bandiera dell’indipendenza senza farsi carico delle patologie che avvelenano il nostro interno sia sul piano della professionalità che su quello della responsabilità e dell’efficienza.
Occorre insomma che l’ANM abbandoni i tortuosi sentieri che hanno contribuito solo ad aumentare il solco che ci separa dalla società civile” (v. pagg. 143-144 del libro di Mario Almerighi “La storia si è fermata”).
Nonostante il ripetuto e continuativo impegno del Presidente Almerighi e dei magistrati che con lui condividevano un comune sentire, nel contrastare il criterio dell’appartenenza nella sua accezione più negativa di collusione con il potere, man mano hanno prevalso sempre di più quelle logiche correntizie finalizzate all’ottenimento di nomine verticistiche non sempre meritate e di favori personali.
Mario Almerighi ha anche subìto, in prima persona, le conseguenze di tale suo agire, sia da parte del Movimento per la Giustizia che dall’ ANM di cui fu Presidente per un solo giorno.
Ma non si è mai arreso ed ha trovato nuova linfa per la diffusione della legalità costituendo l’Associazione ISONOMIA il 24 marzo 2001, composta da avvocati, magistrati ed operatori del diritto, per affrontare insieme, pur mantenendo ogni categoria la propria specificità, i gravi problemi della giurisdizione in quel momento storico “tali da far temere lo sgretolamento di uno dei pilastri di una qualsiasi democrazia avanzata: quella di assicurare ad una collettività ed ai singoli quel minimo di garanzie che riguardano la sicurezza del cittadino, la certezza della tutela dei propri diritti, la convinzione che il rispetto della legge sia condizione di progresso e che la sua violazione sia, invece, causa di regresso e di altro rischio di penalizzazione della propria ed altrui esperienza” (v. Manifesto Fondativo di Isonomia a pag. 306 del libro già citato di Mario Almerighi).
L’associazione, guidata dal nostro Presidente, ha lavorato molto attraverso convegni, seminari, incontri sulla legalità nelle scuole, nel confronto tra giuristi ed operatori del diritto su temi importanti della giustizia ed ha costituito la genesi dell’Associazione Sandro Pertini Presidente e dell’attuale Associazione Sandro Pertini – Isonomia, sempre fondate da Mario Almerighi.
Il 24 marzo è una data simbolica, ricorrente nella vita del nostro Presidente, è il giorno in cui egli ha fondato Isonomia e quello in cui ci ha lasciato, ma per questo deve essere anche il giorno in cui si rinnova l’impegno preso insieme a lui per continuare a coltivare il nostro percorso culturale e giuridico sulla legalità.

Roma, 24 febbraio 2021

Rosalba Turco

Lettera a un esempio

1939-2017

di Paolo Pacitti

Caro Mario,

certo che si sente e forte la tua mancanza. Si sente perchè mai come in questo momento poter contare su qualche riferimento e su qualche regola, farebbe comodo a questo Paese che in piena pandemia ha perduto la bussola. In questi giorni chiuso tra lavoro e casa mi sono chiesto come l’avresti vissuto tu questa terribile pagina della nostra epoca. La parola che mi viene in mente è una sola: “rigore”. Che in fondo è quello che ho appreso da te sin da quella prima telefonata per chiederti cosa diavolo faceva il tuo nome in una lista di consulenti della commissione Mitrokhin. Dopo quel faccia a faccia ci siamo presi subito, proprio in ragione di quella schiena dritta che predicata bene nei manuali di giornalismo, troppo spesso viene da taluni declinata male. La schiena dritta uno o ce l’ha oppure no. E quando trovi chi ce l’ha – se sei uno che ci crede – fai in modo di imitarlo. Per me l’esempio tuo è servito e tanto. Quante volte mi sono chiesto in questi anni che cosa avresti pensato su un determinato argomento e come ti saresti comportato in un mondo complicato e non poco da un interesse individuale che prevarica qualsiasi forma di interesse comune. Dallo scandalo dei petroli ai Dpcm anticovid il passo non è poi così lontano. A distanza di tanti anni l’idea dell’uomo forte continua ad accarezzare le pagine istituzionali di questa nostra democrazia dai Palazzi svuotati. Sono premesse e conseguenze di una storia che si ripete e che – se ti conosco un po’ – avrebbero certamente suscitato una tua presa di posizione. Prendi il caso Palamara – per esempio – il sistema, come lo hanno chiamato. Più di altri hai capito subito dove si andava a parare. Quel gioco delle correnti inevitabilmente avrebbe portato alla delegittimazione del ruolo della magistratura. Quel libro andrebbe letto con i tuoi occhi per capire se davvero era possibile un’altra via rispetto a quella che trasforma il Csm in una banale rappresentazione di un cda di un’azienda di stato. Per questo penso al coraggio delle tue posizioni e al sogno di vedere un Paese in cui siano le regole e i valori a costruire la spina dorsale di una classe dirigente.

In ricordo di Mario Almerighi

di Pino Zupo

1939-2017

  Mi è stato chiesto un breve ricordo del fraterno amico, Mario Almerighi.

  Impresa forse impossibile, come l’agostiniano svuotare il mare con una conchiglia. Ma ci provo, confortato da una citazione di Eraclito, presa dal bel libro di un caro amico, Vincenzo Brandi, su “Conoscenza, scienza e filosofia”, edito in questi giorni. La citazione sembra proprio si attagli alla vita di Mario Almerighi: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada”.

  Mario fu magistrato egregio, ed egregio scrittore: lo è ancora, semel semper. Inseguì un sogno: la verità. Un sogno antico, come quello di Tommaso Campanella, che non a caso aveva impresso sul simbolo sintomatico della Campanella, sveglia delle coscienze addormentate, il motto “non tacebo”. E Mario non ha mai taciuto.

  Per questo è stato avversato dai potenti e dai loro servi di turno, che inquinano la verità per i loro sporchi bassi interessi. Leggete i suoi libri, documentatevi sulla sua attività di magistrato e di uomo amante della verità. Impariamo da lui ad essere amanti di quel termine antico, αληθηια = negazione dell’oblio. Non fermiamoci nella nostra Itaca quotidiana, ma seguiamo l’esempio di lui, che fino all’ultimo conservò l’ardore di “divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”: lui, il cui ricordo ci aiuta ad uscir fuori dalla palude dei tempi, verso “l’alto mare aperto”.

Con ricordo commosso, Pino Zupo

Un pensiero per Mario

1939-2017

di Marcello Marinari

Ci sono ricordi che non si cancellano, che riemergono quando meno ce lo aspettiamo, flash che la nostra mente, la nostra memoria ci rimanda dal passato, indelebili, come un fermo immagine.

Nel caso di Mario Almerighi, però, questo flash, questa immagine che la mia mente proietta non appena parlo di lui o ne sento parlare, non è riemerso solo a distanza di tempo, come accade a chi invecchia, specie per la memoria della propria infanzia.

Ricordo perfettamente, ed ho sempre ricordato, quando e dove ho conosciuto Mario, un ricordo che non mi ha mai lasciato, e che non dipende, quindi, da ciò che con il passare del tempo ha significato e significa ancora per me la nostra amicizia; dipende invece dall’importanza che quell’incontro ebbe già allora, nel momento stesso in cui avvenne.

Ero appena entrato in magistratura, un’avventura della quale non capivo ancora bene tutte le implicazioni, ma che mi affascinava e mi spaventava allo stesso tempo, ed ero alla ricerca di modelli, come spesso capita ad un giovane, un giovane ingenuo ed inesperto come me, per giunta, che aveva affrontato il concorso per l’insistenza affettuosa ma implacabile di un magistrato che mi conosceva nei miei primissimi passi da procuratore legale.

Un giorno lessi su una rivista un’intervista di Mario, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, un’intervista che mi colpì moltissimo, a partire dalla foto di Mario, la foto di un giovane, e di un giovane sorridente, così diversa dallo stereotipo del magistrato di allora, un giovane che diceva con molta sicurezza, ma senza spavalderia o arroganza, che lui e gli altri magistrati eletti con lui avrebbero fatto “grandi cose”, nel senso dell’impegno a rinnovare la magistratura, un impegno civile, così mi sembrò, prima ancora che professionale, e che corrispondeva alla sua personalità, come ho poi potuto esperimentare.

Era un’immagine molto diversa da quella che avevo avuto fino ad allora dei magistrati, un’immagine la cui credibilità derivava però anche dalle clamorose inchieste genovesi delle quali avevo letto qualche anno prima, che mi comunicò entusiasmo, come è avvenuto tante altre volte, parlando con Mario, o ascoltandolo.

Ho detto che ero alla ricerca di modelli, di esempi da imitare, dai quali imparare, ed aggiungo: non di padrini, ed è in questa prospettiva che mi proposi di trovare il modo di conoscerlo, avendo letto di un convegno al quale avrebbe partecipato.

Ricordo che lo avvicinai dentro il ristorante dove eravamo andati tutti nella pausa dei lavori, per presentarmi, senza neppure scusarmi di bloccarlo, un po’ maleducatamente, nel corridoio, tanto ci tenevo a conoscerlo; Mario, con la sua consueta gentilezza e disponibilità, non si sottrasse, e da lì è cominciata la nostra conoscenza, divenuta poi una grande amicizia, che non si è mai interrotta e non ha mai avuto momenti di crisi.

Lo andavo a trovare a Genova, dopo avere iniziato a lavorare a Biella come Pretore, e poi ci ritrovammo in molte occasioni, quando era ormai a Roma, tra convegni e riunioni associative, e cominciò l’esperienza di quel gruppo di magistrati che avrebbero poi costituito il movimento dei “verdi”, come furono chiamati dal colore del primo documento pubblicato, dei quali Mario era uno degli esponenti più importanti ed autorevoli.

Fu un’esperienza bellissima, nei suoi momenti fondativi, per un giovane magistrato come me che avvertiva l’esigenza di una modernizzazione della magistratura, senza rigidità ideologiche, ma con forti ideali, nella quale il tradizionale (ed un po’ vago, benché nobile) concetto di missione si accompagnava a quello di competenza professionale e di efficienza, anche se non di efficientismo manageriale, come pure qualcuno, tra i magistrati, diceva sprezzantemente, e di un nuovo rapporto tra la magistratura e la società, dopo la dura lezione del referendum sulla responsabilità dei magistrati.

Mario, con il suo contagioso entusiasmo, impersonificava perfettamente le mie aspettative e le mie aspirazioni, anche se poi, nello sviluppo di quel bellissimo progetto fondativo, dopo la fase semiclandestina e la rottura con la corrente alla quale aderivamo,  ci ritrovammo su due posizioni diverse, quanto alla fisionomia che avremmo voluto dare a questa nuova formazione, soprattutto per quanto riguardava la presenza di non magistrati, ed i limiti che ciò avrebbe comportato per la partecipazione alle vicende associative, soprattutto per le elezioni, una prospettiva che io non vedevo con sfavore, mentre Mario era fermamente convinto che ciò avrebbe determinato l’irrilevanza della nuova formazione. Molti anni dopo, con la consueta onestà intellettuale, mi disse che forse avevo visto bene io, allora.

Ma questa differenza di posizioni, e quelle che talvolta si manifestarono anche su altri punti, non hanno mai avuto alcuna conseguenza sui nostri rapporti, anche quando, proprio per effetto del sempre maggiore allontanamento dal progetto originario, la mia partecipazione attiva si fece meno intensa, benché il movimento fosse sempre il mio punto di riferimento, come magistrato associato; Mario non lo avrebbe mai fatto, lui non si dava mai per vinto e combatteva le sue battaglie senza perdersi d’animo.

Forse le cose avrebbero potuto cambiare, per me, intendo, ma non solo, a pensarci bene, con la nomina di Mario alla Presidenza dell’associazione, che appresi con grande gioia e sorpresa una domenica mattina leggendo il giornale, perché era un po’ di tempo che non ci sentivamo e che non conoscevo i dettagli delle vicende associative.

Sappiamo tutti come è andata, e ricordo che allora, mentre stavo partendo per un impegno all’estero (anche in questo caso il flash-io che scrivo in una camera d’albergo) sentii il bisogno di scrivergli un biglietto, invece di telefonargli, come pure feci in seguito, proprio per attestare in modo più forte la mia vicinanza. Penso che questa vicenda, per come me ne ha poi parlato Mario e per il tono che senti nelle sue parole, sia stata un punto di svolta nella sua vita, almeno nella sua vita di magistrato impegnato con grande passione nelle vicende associative, e curiosamente (o forse no), fu proprio da allora che riprendemmo a sentirci più regolarmente.

Aggiungo che sono certo che questa vicenda sia stata fonte di grande dolore, e di sofferenza anche fisica per lui, e non certo per la rinuncia alla poltrona presidenziale.

Qualche volta lo andavo a trovare quando ero a Roma, e tante volte ci sentivamo al telefono, spesso mentre era a Bracciano, nella sua dimensione più privata.

Stava sviluppando la sua vocazione di scrittore, che ci ha regalato dei racconti-documento sempre profondi, mai pesanti però, e spesso anche pieni di ironia e di aneddoti.

In questa dimensione ecco riaffiorare quella passione civile che avevo intuito già da quel nostro lontano primo incontro; a differenza di tanti altri magistrati che scrivono libri, lui scriveva per testimoniare, per contrastare la perdita collettiva della memoria dei fatti, e lo faceva senza derive autocelebrative, senza retorica; raccontava, certo, con qualche concessione narrativa, ma sempre fedele alla verità dei fatti, per come l’aveva conosciuta.

Aveva trovato una dimensione che lo appassionava, come sentivo dalla sua voce quando parlavamo al telefono; e che gli aveva dato anche la voglia di affrontare un’altra esperienza, quella della Presidenza di Civitavecchia, con grande entusiasmo e con la speranza di fare ancora qualcosa di valido e di importante, non per la sua “carriera”, ma per la collettività.

Ci sentivamo mentre io ero a Montepulciano, in quella che sarebbe stata la mia ultima sede di magistrato, e ci scambiavamo opinioni e sensazioni; mi parlava non solo del lavoro, ma anche della barca, perché condivideva con me la passione per il mare. Fu entusiasta di aiutarmi a pubblicare un libro su Pertini, con alcuni amici dell’Elba, sul processo che aveva subito a Portoferraio durante in fascismo, quel Pertini che aveva conosciuto ed ammirato tanto.

Fu in questo periodo che ci incontrammo per l’ultima volta purtroppo, ma allora non avrei potuto immaginarlo; mi invitò alla presentazione di un suo libro, a Capalbio, e fui felice che avesse voluto che prendessi la parola per parlarne; lo ricordo davvero contento, circondato da persone che amava, e che lo amavano; fu un momento molto bello.

Mario non è mai invecchiato mentalmente, è sempre rimasto capace di sognare e di sperare, malgrado tante delusioni, e disillusioni, che lo hanno accompagnato anche nell’ultimo periodo del suo lavoro di magistrato, di Presidente di Tribunale; ricordo che lo sentii non solo amareggiato, ma quasi incredulo, non riusciva a comprendere quello che stava succedendo, e se non fosse stato così deluso e amareggiato non avrebbe preso la decisione di lasciare. Mentre scrivo queste righe me lo vedo ancora davanti, sorridente; a questo punto mi direbbe di smetterla, e lo faccio, ma con l’impegno di continuare a ricordarlo non con cerimonie commemorative, ma cercando di conservarne sempre la memoria, insieme ai tanti che lo amano, proseguendo, per quanto ne sono capace, sulla stessa strada.

Studi per Mario

A un anno dalla scomparsa di Mario Almerighi, le associazioni Sandro Pertini Presidente e Isonomia hanno organizzato, presso l’Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione, una giornata di studio in suo ricordo. Coordinati dal presidente Vito D’Ambrosio, relatori di alto prestigio hanno potuto ripercorrere le tappe fondamentali dell’esistenza di un magistrato che ha segnato il corso della magistratura sotto diversi profili. La pubblicazione, grazie alle testimonianze di persone che lo hanno conosciuto e affiancato nel corso delle sue numerose battaglie, rappresenta uno spunto di approfondimento anche per le generazioni future, sottolineando uno spaccato di storia del nostro Paese.

A cura di Valeria Almerighi
Contributi di: Leonardo Agueci, Giovanni Battista Bachelet, Carlo Giuseppe Brusco, Domenico Carcano, Alessandro Cassiani, Fernanda Contri, Enrico De Nicola, Ennio Di Francesco, Vito D’Ambrosio, Mario Fresa, Adelmo Manna, Silvana Mazzocchi, Antonino Ordile, Livia Pomodoro, Celestina Tinelli, Giuseppe Zupo

Il programma del convegno

ASSOCIAZIONE SANDRO PERTINI ISONOMIA

CONVEGNO SU:
“DAL DIRITTO VIGENTE, NAZIONALE E COMUNITARIO, AL DIRITTO VIVENTE”

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Aula OCCORSIO Tribunale penale di Roma Piazzale Clodio
Lunedi’ 30 settembre 2019 – ore 9,30
13,30

PROGRAMMA

Saluti Istituzionali
Introduce Adelmo MANNA
(Professore ordinario di diritto penale presso l’università di Foggia – Avvocato)

Vito D’AMBROSIO

(Presidente Associazione Sandro Pertini – Isonomia già Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione)

interventi programmati

Cesare MIRABELLI (Presidente Emerito – Corte Costituzionale) “Interpretazione e integrazione del diritto: il ruolo dei giuristi”

Roberto Giovanni CONTI (Consigliere Corte Suprema di Cassazione) “Diritti fondamentali e giudici di vecchia e nuova generazione. Doverosità, opportunità o peso?”

Ombretta DI GIOVINE (Prof.ssa di diritto penale Università di Foggia) “La giurisprudenza penale tra distorsioni e obiettivi di politica criminale”

Maria Gabriella LUCCIOLI (già presidente 1° sez. Civile Corte Suprema di Cassazione)

“La tutela dei diritti fondamentali nel diritto vivente e i ritardi della politica”

Luigi STORTONI (Prof. Ordinario di diritto penale Università di Bologna) “La norma penale tra legge e giudice”

CONCLUDE

Leonardo AGUECI

(già Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Palermo)

SARANNO ACCREDITATI DAL CONSIGLIO DEL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA I CREDITI FORMATIVI

Segreteria organizzativa:
Avv. Rosalba TURCO, Cinzia FERRETTI
Via Gregorio VII°, 269, 00165 Roma Tel 06.39735051 Fax 06.39735699 e-mail: segreteria.isonomia@gmail.com Sito on-line: www.pertinipresidente.it

Quel grumo di…

di Vito D’Ambrosio

30 gennaio 1992 pomeriggio inoltrato. Entra nell’Aula Magna del Palazzaccio a Roma la prima sezione penale della Corte di Cassazione per leggere la sentenza definitiva sul maxi processo contro la mafia istruito da Giovanni Falcone. Il numero di imputati , più di 400, e dei reati contestati allungano assai la lettura, ma orecchie esperte capiscono molto presto che la Suprema Corte ha confermato le conclusioni del pool di magistrati, guidati da Falcone, nel costruire il processo forse più grande del mondo. Dopo la lettura e il ritiro della Corte, nella grandissima confusione tra il pubblico per capire quanto era accaduto, fra ergastoli confermati in massa, qualche annullamento con rinvio e nuovo calcolo delle pene, alcuni giornalisti amici mi chiedono se, come pubblico accusatore, insieme ad altri due colleghi (evento unico per i processi in Cassazione) ed amico personale di Falcone, sono contento della conferma per le sue tesi accusatorie, fondamento della catena di ergastoli ormai definitivi. Dopo essermi guardato dentro con attenzione, rispondo che dietro ad ogni ergastolo c’è un tale enorme grumo di dolore che parlare di contentezza non è concepibile per i rappresentanti delle istituzioni. Anche se dopo un mese di udienze (anche questo caso assai raro) non posso negare una asciutta soddisfazione professionale e la convinzione che l’impegno senza fine di tanti, dimostrato da pochi numeri (oltre 500.000 pagine di documenti, più di 7000 per la sentenza di primo grado e oltre 2000 per quella d’appello) ha portato alla riaffermazione della giustizia nei confronti di chi l’ha ferita tanto ferocemente e lungamente.
Così la pensavo allora. Così la penso oggi.