Mario e Sandro

di Sergio Materia

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, passa in rassegna un reparto dei Bersaglieri. Roma, 8 luglio 1978

Il 24 marzo, proprio nel giorno in cui cinque anni fa è scomparso Mario Almerighi, il comune di Roma ha deciso che la casa di Sandro Pertini diventerà un museo multimediale.
Mario Almerighi è stato presidente della Fondazione Sandro Pertini e si è battuto perché la memoria del Presidente e di quello che ha rappresentato restasse viva.
Ancora una volta le figure di Pertini e di Almerighi si incontrano. E forse non è solo un caso che questo accada in questo periodo di guerra in cui, spesso a sproposito, prendono la parola i movimenti pacifisti.
Invece di tante parole, basterebbe ricordare la figura di Sandro Pertini.
Nessuno ha dimenticato le sue parole di pace (“si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai”). Ma quel Pertini è lo stesso che fu a capo di un’organizzazione partigiana che le armi le usò eccome, perché servivano a combattere il nemico nazifascista. E non c’è nessuna contraddizione dovuta magari alla distanza temporale, come qualcuno potrebbe pensare. E’ lo stesso Sandro Pertini, nell’uno e nell’altro caso, che aveva chiarissimo il confine nettissimo tra amore per la pace e passività.
Nemmeno chi mette la pace al primo posto tra i valori fondanti di una società può essere arrendevole quando un feroce oppressore mette sotto attacco la libertà e la voglia di democrazia.
Perché come ha scritto il teologo Vito Mancuso rispondendo alle sorprendenti affermazioni “pacifiste” del presidente dell’ANPI, la libertà e la dignità sono più importanti e più sacri della vita stessa. Basta rileggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza.
Tutto questo è scritto nella Costituzione. Viene spesso ricordato l’art. 11: L’Italia ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
E già il discorso si fa più complesso del semplice ripudio della guerra. Ma poi c’è l’art. 52: “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. E allora è chiaro che la reazione anche armata contro un nemico oppressore o invasore non solo è legittima ma è doverosa. E se questo vale per la propria patria, deve valere per tutte le patrie.
Pertini tutto questo, questa convivenza tra volontà di pace e fermezza davanti alla violenza ingiusta, lo ha impersonato in tutta la sua vita.
Anche sul piano personale era così, perché era burbero ma sotto sotto ci vedevi un che di scanzonato, di accogliente.
Io credo proprio che anche questo aspetto della figura di Pertini abbia conquistato Mario Almerighi. Perché anche Mario era così. Sempre gentile, sentiva forte il senso dell’amicizia. Era la base necessaria di ogni discorso politico. Per questo, le delusioni vissute nella sua attività pubblica erano anzitutto delusioni sul piano personale.
Ma anche Mario era capace, eccome, di battaglie tenaci in nome della dignità e del senso di giustizia, e mai in nome di interessi personali.
Oggi insomma anche Mario Almerighi rivive ed è presente in questa bella occasione di ricordo di Sandro Pertini. E sarebbe bello che i giovani, assieme alla figura del più amato dei presidenti, riscoprissero quella di un grande giudice e grande uomo come Mario Almerighi.

Una casa per le idee di Pertini

di Valdo Spini

Anni fa, andammo con Mario Almerighi dall’allora commissario prefettizio al Comune di Roma, Fabrizio Tronca, per prospettargli il problema della casa a Fontana di Trevi dove Sandro Pertini viveva con la moglie Carla e che è di proprietà del Comune Capitolino. L’idea era di farne una Casa della Memoria per raccontare il suo impegno politico e sociale, e dare a tutti la possibilità di ricordare nel tempo la sua vita e le sue opere . Pertini non ha mai abitato al Quirinale, ma è sempre rimasto  in questa piccola casa nel cuore di Roma. Volevamo proporre attività interattive e di proiezioni , dirette soprattutto ai giovani un museo didattico che poteva  arrivare comunque all’interesse  di tutti, senza limiti di età. La nostra visita al Commissario non ebbe poi seguito per il poco tempo che allora ci separava dalle elezioni amministrative del 2016. Ma nella nuova consiliatura (eletta nel 2021) l’idea ha finalmente trovato un seguito nelle istituzioni. Per iniziativa della consigliera comunale Antonella Melito, con una mozione in Campidoglio fatta propria da tutto il gruppo Pd, quell’idea, cui Mario Almerighi teneva tanto, è stata rilanciata. Si dice nella mozione “Chiediamo al Sindaco e alla Giunta di portare avanti il progetto per un’esperienza che possa tenere in vita la memoria del Presidente “più amato dagli italiani”. Sono molto grato alla consigliera Melito e al gruppo Pd che risollevano nel consiglio comunale di Roma Questo tema.. Ritengo che la vita di Sandro Pertini possa essere di importante stimolo per la partecipazione nella vita pubblica e per l’impegno nella vita politica delle giovani generazioni. Ricordo quello che diceva il Presidente Pertini: “Giovani, scegliete una fede politica democratica e per quella date il meglio di voi stessi».

Valdo Spini

Credo che sia un invito quanto mai attuale, e mi auguro che tutte le forze presenti in Aula Giulio Cesare vogliano accogliere questa iniziativa significativa, che nel cuore della  Città di Roma potrebbe dare risalto ad un grande impegno civile e politico.    

Sarebbe anche il miglior modo di ricordare la memoria del giudice Mario Almerighi.

In ricordo di Mario

Fontana di Trevi. Mario Almerighi con la sua famiglia davanti al palazzo che ha ospitato la residenza di Sandro Pertini (foto di famiglia)

Oggi 24 maggio ricordiamo il nostro presidente Mario Almerighi con affetto e riconoscenza per la dedizione e l’impegno costante nel perseguire i valori della legalità e della giustizia.

Pace è libertà

di Leonardo Agueci

Chissà cosa avrebbe detto Mario Almerighi di fronte alle immagini di guerra e di orrore che in questi giorni ci vengono mostrate di continuo?

Come quelli della generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale soprattutto attraverso i racconti dei propri familiari e le tragedie ancora recenti che l’avevano accompagnata, avrebbe probabilmente considerato del tutto insensata e inimmaginabile l’idea che potesse avvenire ancora qualcosa del genere.

E una chiara testimonianza del suo pensiero viene data da un appunto, ritrovato tra le sue cose, nel quale definisce la guerra come “la più sublime manifestazione dell’infinita stupidità dell’uomo”!

Siamo cresciuti coltivando i valori della pace, della libertà e del reciproco rispetto delle persone, quali fondamenti assoluti dei rapporti tra i popoli,  e – come se fossimo di colpo ritornati al 1939 – ci troviamo oggi di fronte alla violenta e prepotente invasione di una nazione sovrana europea ad opera di un’altra nazione più forte, formalmente motivata da evidenti pretesti ed accompagnata da stragi di inermi cittadini (tra i quali tanti bambini), da brutalità di ogni genere e dalla pianificata distruzione totale di intere città.

 Assistiamo sgomenti alle sistematiche violazioni di principi di umanità elementari ed alla quotidiana consumazione di efferati crimini di guerra, per effetto della volontà di pochi uomini, impadronitisi del potere assoluto e incontrollato del proprio paese.   

All’interno dello Stato invasore ogni libertà democratica risulta di fatto eliminata; ogni manifestazione di pensiero non allineata viene brutalmente repressa; non è consentito alla stampa, compresa quella straniera, alcun genere di informazione diverso dalle fonti di potere; viene persino tenuta nascosta ai propri cittadini la stessa esistenza di una guerra in atto.

I sentimenti di indignazione suscitati da tutto ciò non possono essere attenuati dalla considerazione che l’orrore riguarda realtà politiche e geografiche lontane (ma in realtà non lo sono!) e che l’unico reale motivo di preoccupazione per noi può derivare dagli effetti economici sulla nostra vita quotidiana.

È in gioco invece la libertà dei popoli, non solo di quello invaso – che lotta per la propria sopravvivenza – e di quello costretto ad essere invasore ma, attraverso loro, quella di tutte le nazioni.

E se non c’è libertà tutti gli altri principi di civiltà perdono di senso; gli stessi valori di Diritto e Giustizia – i ”nostri” valori – diventano semplici esercitazioni verbali o, peggio, ipocriti pretesti per consolidare le tirannie.

Le tragedie cui stiamo assistendo ci ricordano che la libertà va sempre protetta; che non può esserci vera pace senza libertà; che difenderla, quando viene messa in pericolo, costituisce un dovere morale assoluto, come ci ricorda l’insegnamento – sempre attuale – di Sandro Pertini.

Ci siamo a lungo adagiati nel considerare scontato e permanente il bene della libertà, ma ora è tempo di impegnarsi, in tutti i modi necessari, per riaffermarne fondamento ed importanza; lo dobbiamo soprattutto per impedire che il suo valore autentico e profondo possa essere allontanato dalle prospettive di vita dei nostri figli e delle nuove generazioni.

Scritti per Mario

24 marzo 2021

1939-2017

Ecco qui raccolti alcuni scritti di chi ha conosciuto Mario Almerighi nei suoi ruoli di magistrato, scrittore, autore teatrale e prima di tutto uomo dalle infinite qualità. L’associazione Sandro Pertini presidente-Isonomia, rifondata nel 2019 dopo una fusione tra le due associazioni, nasce da una sua intuizione ed in occasione del quarto anniversario dalla sua morte, quelli che hanno condiviso con il suo esempio un modello di vita hanno deciso di ricordarlo così in un momento particolarmente delicato della nostra democrazia.

Introduzione

Il 24 marzo 2001 Mario Almerighi ha fondato l’associazione Isonomia, dando spazio, così, ad una nuova avventura.

Il 24 marzo 2017 il nostro amico è morto.

In questo 24 marzo 2021, dopo quattro anni dalla sua morte, noi, che gli siamo stati vicini fino all’ultimo, condividendo con lui soddisfazioni ed amarezze, abbiamo scelto di incontrarci e di pubblicare “quello che lui è stato per noi”. Sono nati, così, per questa data, ricordi di Mario, che ognuno di noi riteneva più significativi, senza escludere, anzi richiedendo che anche altri scrivessero di lui, prevedendo la pubblicazione nei prossimi tempi.

Così oggi, un giorno dopo, vogliamo rendere pubblico questo “ritratto di Mario”, questo puzzle nel quale  abbiamo costruito una sua foto che cercasse di fare vedere, accanto al  suo volto, riprodotto ad ogni scritto, la sua anima, per quanto possibile, la sua impronta nella vita di ognuno di noi.

Sono nati così gli scritti che adesso offriamo alla lettura di tutti, scritti diversi, alcuni più attenti alla attualità del messaggio di Mario in confronto con la tempesta che sta squassando la magistratura tutta, altri più inclini ad un ricordo più intimo, più rivolto all’uomo Almerighi. Ognuno ha offerto la sua personale “lettura”, e ad ognuno va il ringraziamento degli altri, perché in piena libertà ha partecipato a questo speciale 24 marzo, che cercheremo di far diventare una specie di ricorrenza, una tappa del cammino nostro, su una pista che Mario ha comunque e per primo indicato e cominciato a percorrere.

A chi leggerà i nostri ricordi, buona lettura.

Vito D’Ambrosio (Presidente dell’Associazione Sandro Pertini-Isonomia).

Vito D’Ambrosio: Per Mario

Leonardo Agueci: Risalire la china

Adelmo Manna: Ricordo di Mario Almerighi in rapporto al caso Palamara

Sergio Materia: Contro…”corrente”

Adriano Sansa: C’era una nave

Gioacchino Natoli: In pochi verso la meta

Rosalba Turco: Mario Almerighi e il 24 marzo. Le riflessioni di un avvocato

Paolo Pacitti: Lettera a un esempio

Marcello Marinari: Un pensiero per Mario

Pino Zupo: In ricordo di Mario Almerighi

Per Mario

di Vito D’Ambrosio

1939-2017

di Vito D’Ambrosio

Negli armadi della memoria ci sono, a volte, nomi che si portano dietro una faccia, una persona, una storia.
Io conosco una marea di Mario, ma quando sento questo nome mi torna in mente ,subito, Il viso di Mario Almerighi, il suo sorriso, il caratteristico intercalare i discorsi con raschi di gola, dovuti non alla pipa, che fumava da quando aveva dovuto smettere con le sigarette, ma, secondo me, alla ricerca degli argomenti giusti per convincere l’interlocutore.
Avevo conosciuto Mario nel 1976, nel corso di una campagna elettorale per il CSM, quando era candidato, come me, per la categoria dei magistrati di tribunale. Quindi era un mio diretto concorrente, e la cosa non mi faceva piacere, vista la sua fresca ed ampia notorietà per lo scandalo dei petroli. Inoltre il suo essere l’antesignano della categoria dei “ pretori d’assalto” aumentava le sue possibilità elettorali, ulteriormente favorite dal sostegno aperto di Beria d’Argentine e Livia Pomodoro.
Quindi c’erano tutti gli elementi per la nascita di una mia profonda antipatia nei suoi confronti.
Ma, nel corso del folle giro d’Italia nel quale, all’epoca, si sostanziava la campagna elettorale, riuscii a conoscere Mario e a cancellare il germe dell’antipatia. Quel ragazzone sveglio, con gli occhi color del mare, che faceva i discorsi rituali di ogni elezione con un tono di convincimento e condivisione profondi, che portava con scioltezza il carico di notorietà suo inseparabile compagno, mi spiazzò presto, smontando la mia iniziale ritrosia. Inoltre la coincidenza degli interessi professionali, e della posizione verso una Associazione Magistrati nella quale stava già per iniziare la trasformazione delle correnti in apparati non refrattari a tendenze corporative, trasformò il rapporto tra Mario e me in una amicizia che ha retto per tutta la restante parte della sua vita, e che per me continua ancora, visto che Mario, come Giuliana, lo sento ancora qualche volta presente.
Mario, come era assolutamente prevedibile, fu eletto e iniziò le sue battaglie per una magistratura eticamente almeno accettabile, e si trovò subito di fronte ad un problema che nessuno ancora è stato in grado di risolvere, quello dei pareri che allora erano necessari per i vari incombenti di carriera. Ricordo ancora bene che una volta mi chiamò per chiedermi maggiori elementi giustificativi di un parere perplesso su un uditore (magistrato in tirocinio), sul quale tutti gli altri colleghi affidatari si erano espressi favorevolmente. I miei chiarimenti lo trovarono concorde, ma cauto sulle possibilità di un accoglimento da parte del CSM, cosa che anche qui prevedibilmente si avverò nel senso peggiore. Seguivo Mario a sprazzi, entrambi affogati dai rispettivi impegni lavorativi; soltanto per caso seppi del suo ricovero ospedaliero per una brutta ulcera dopo la fine dell’esperienza nel CSM : chiedendogli come mai si fosse convertito alla pipa, mi confidò che in ospedale gli avevano severamente proibito le sigarette. Tornò a Genova, dove, come constatai personalmente, aveva intessuto stretti rapporti di amicizia con molti dei magistrati giovani, oltre ai suoi due “gemelli d’assalto” Sansa e Brusco, che sono rimasti sempre suoi amici.
Continuammo a sentirci e a vederci nelle numerose riunioni della “corrente” alla quale entrambi appartenevamo, trovandoci sempre, o quasi, dalla stessa parte fermamente convinti che le crescenti tendenze corporative andavano contrastate vigorosamente, e sul punto raccoglievamo non molte adesioni, però pienamente convinte. Proprio su un caso importante, l’elezione del presidente della ANM, che scoppiò con tutta la potenza dell’appena pubblica vicenda della P2, decidemmo di esporre apertamente una posizione critica, stilando un documento, firmato da sei di noi. Per stampare il documento Mario si rivolse ad una tipografia sotto casa sua, che gli propose di utilizzare carta verde, per il risparmio sui costi e per la penuria momentanea di carta bianca. Nacque ,così, un movimento di protesta che, per il colore della carta e per dare sfogo ad una forte risentimento della maggioranza della correte, fu battezzato” dei verdi”, del quale Mario, per la sua preminente posizione personale e politica, fu “proclamato” rappresentante e presidente da tutti noi, nel frattempo cresciuti di numero.
Intanto io fui eletto al CSM e Mario raccontò a tutti, per anni, che avevo rifiutato un “apparentamento” con altro discusso candidato, circostanza che non io, ma appunto lui sventolò come segno di solida dirittura morale.
Durante il mio quadriennio consiliare il rapporto con Mario diventò sempre più forte, intessuto anche dei reciproci aggiornamenti sulle questioni più importanti che dovevamo (tentare di) risolvere io al CSM, e il mio amico all’ufficio istruzione del tribunale di Roma, al quale era stato destinato dopo il trasferimento da Genova. Ma l’amicizia si allargò sempre più ai rapporti personali, tanto che fui invitato, con pochi altri, al matrimonio di Mario e Susanna, nel quale portarono gli anelli i loro figli, Valeria e Dario. In un momento nel quale, un po’ stanco, anche per l’omicidio di Falcone e Borsellino, amici carissimi di Mario e miei, chiesi ed ottenni il “prestito” alla politica, e per dieci anni fui presidente della Regione Marche, Mario attraversò uno dei passaggi più brutti della sua esperienza di politica della magistratura. Eletto, infatti, Presidente della ANM, rilasciò, sotto il vincolo del segreto, ad una giornalista una dichiarazione sulla nomina a Ministro della Giustizia di un parlamentare, la cui candidatura sembrava fortissima. La giornalista pubblicò la dichiarazione, distorcendo totalmente il pensiero di Mario, e Almerighi finì dritto dentro una tempesta politico-correntizia, che lo indusse – o costrinse – alle dimissioni, vedendo rarefarsi amici considerati fidati, e subendo pressioni fortissime da colleghe e colleghi, quasi certamente ispirate da importanti soggetti politici. Mario ricorse al giudice competente (Perugia) ed ottenne una sentenza riparatrice dalla Corte d’Appello del 2009, confermata alla Cassazione nel 2012, con la quale Il Corriere della Sera, il suo direttore protempore De Bortoli e la giornalista Calabrò furono condannati a pagare al ricorrente la somma di € 50.000 di danni per lesione grave della sua identità personale. Ma il danno era stato già arrecato irreparabilmente.
Mario reagì a questa situazione molto sgradevole abbandonando l’ ANM, con la quale non ebbe più rapporti (la sua sardità glielo impedì) e fondando altre associazioni, sempre impegnate a rendere il compito della magistratura un servizio alla collettività e non soltanto l’esercizio di un potere personale (finalità nella quale coinvolse anche altri operatori del diritto, avvocati e studiosi, tentando perfino una apertura verso la società civile, che non doveva disinteressarsi).
Ma un altro impegno entrò nella vita di Mario, quello di tradurre le sue esperienze in narrazioni, e i suoi libri furono, tutti, intessuti di esperienze vissute, e tutti frutto della convinzione del loro autore di sollevare la soffocante coperta del segreto su alcuni snodi cruciali della società italiana. Leggendoli, al di là dello schermo narrativo, io vedevo Mario, pipa in bocca e incontri a raffica con amici, giornalisti, magistrati, avvocati, rappresentanti di associazioni analoghe. Solo lo scrittore Almerighi poté assorbire, con la giusta amarezza e non di più, la brutta esperienza della mancata riconferma alla presidenza del tribunale di Civitavecchia, ottenuta trionfalmente e bruciata per un atteggiamento per niente permissivo verso una situazione locale assai discutibile.
Era, il nostro rapporto, incardinato nella normalità quotidiana quando una sua telefonata mi sbalzò di sella; mi comunicava la scoperta di un tumore ad un organo, che io sapevo essere molto refrattario a qualunque contrasto, sia medico, sia chirurgico, al quale Mario decise di sottoporsi. Una mancanza di notizie mi illuse, ma poi la verità schiantò ogni mia speranza, fino all’ultima visita all’amico morente, con pochissimi colleghi/amici.
Mario è morto, ma non per noi, non per me. Rimane esempio di rara capacità professionale, di una ancora più rara, purtroppo, dirittura morale, e ancora, di una amicizia duratura, sincera, leale, come proprio era lui.
Cercheremo non tanto di commemorarlo, ma di seguirne la pista, noi che gli abbiamo voluto bene, con Susanna, Valeria e Dario ( ed anche Lampo, và) con l’affetto di sempre.
Una gran bella esperienza, avere avuto per amico Mario Almerighi.

Ancona, 22 marzo 2021.

Risalire la china

1939-2017

di Leonardo Agueci

In un articolo del giugno 1998, Mario Almerighi – nel tracciare il bilancio dei dieci anni dalla nascita del Movimento per la Giustizia scriveva che: “…La difesa della indipendenza e della autonomia della magistratura era in gran parte difesa di una scatola vuota dentro la quale ciascun giudice è pressoché arbitro assoluto di mettervi dentro il massimo della sua professionalità e della sua responsabilità fino al rischio della vita o il suo esatto contrario, fino al rischio della galera…”
E ancora, parlando dell’associazionismo in magistratura, osservava che “…la rappresentanza aveva perso il suo significato più nobile della delega controllata con riguardo all’aspetto contenutistico per adagiarsi su aspetti ricollegabili a logiche assistenziali di appartenenza amicale, d’ufficio, regionalistica o fondata su atteggiamenti fideistici…,” e, a proposito del Consiglio Superiore della Magistratura, rilevava che“…troppo spesso la gestione del CSM anziché essere improntata al criterio dell’uomo giusto al posto giusto era assai spesso caratterizzata dalla politica della maglia giusta nel posto sbagliato…” .
Oggi sarebbe fin troppo facile osservare come questa analisi – che peraltro, quando fu scritta, si riferiva alla situazione di 10 anni prima – presenti ancora caratteri di attualità, anche dopo altri ventidue anni, ma non sarebbe una conclusione esatta perché attualmente le cose sono decisamente peggiorate.
Il quadro desolante che è stato offerto dalla magistratura e dal suo organo di autogoverno con il “caso Palamara” rivela difatti come le criticità a suo tempo denunziate sono diventate distorsioni gravissime, si spera non irreparabili, dell’intero sistema e della sua reale rispondenza, nei fatti, al modello disegnato dalla Carta Costituzionale.
Un ripasso dei principi sembra allora opportuno.
La nostra Costituzione, nel configurare l’indipendenza della funzione giudiziaria, aveva rilevato la necessità di mettere al riparo il giudice da condizionamenti esterni, idonei ad incidere sul suo status professionale e quindi sulla sua vita reale.
Da ciò la determinazione di attribuire in modo esclusivo la gestione, in tutti i suoi momenti, della vita professionale del magistrato ad un apposito organismo, il Consiglio Superiore della Magistratura, formato in maggioranza da magistrati, eletti dalla stessa magistratura ordinaria, e ciò al fine specifico di garantire al meglio – attraverso l’autogoverno – l’indipendenza, sia del singolo giudice, sia dell’Ordine Giudiziario nel suo complesso, proteggendola da interferenze e condizionamenti provenienti da ogni genere di strutture e poteri, pubblici e privati, palesi e occulti.
Il fondamento di tale scelta si colloca chiaramente nella convinzione che la magistratura, attraverso i suoi rappresentanti eletti, fossa autonomamente in grado di applicare rigorosamente il principio fondamentale di esclusivo assoggettamento alla legge (art. 101 Costituz.) anche alla propria organizzazione interna.
In particolare poi, tenuto conto che i compiti più significativi assegnati al CSM (in particolare le nomine per gli uffici direttivi e semidirettivi) prevedono continue valutazioni comparative e discrezionali, si riteneva che l’autogoverno potesse garantire che le scelte si fondassero su esclusivi e reali elementi oggettivi e di merito professionale.
Fin dagli anni ’80 però era stato facile constatare come tale obiettivo fosse lontano dalla sua effettiva attuazione e ciò era stato costante oggetto di riflessione da parte di Mario Almerighi e del gruppo di colleghi a lui vicini, a partire da quando avevano iniziato a riunirsi per poi dar vita al Movimento per la Giustizia (aprile 1988), che difatti ha avuto, tra le sue ragioni fondanti, proprio la denunzia della involuzione delle correnti dell’ANM e della loro trasformazione in gruppi di potere.
Invero già all’epoca appariva chiaro come le correnti, nate all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati come espressioni di diverse e spesso contrapposte idee sull’esercizio della Giurisdizione, fossero divenute potenti strutture in grado di condizionare fortemente, e spesso determinare, le scelte di concreta attuazione dell’autogoverno.
In realtà l’organizzazione del consenso elettorale, del quale le correnti erano nate come legittime titolari, si era col tempo trasferita dal dibattito sulle idee, alle offerte – più o meno esplicite – di protezione ed assistenza al singolo magistrato elettore per il raggiungimento delle aspirazioni individuali, da ottenere, se necessario, in barba a qualsiasi oggettivo criterio.
Si offriva, da una parte, una sorta di polizza assicurativa cui potere ricorrere nei momenti critici della propria carriera, dall’altra un percorso privilegiato – col tempo divenuto indispensabile – per accedere a qualsiasi nomina od incarico, oggetto di designazione da parte del CSM.
Si è così sempre più sviluppata, all’interno della magistratura, accanto alla ordinaria carriera professionale, una carriera parallela, consistente in incarichi e militanza all’interno delle correnti, che permetteva – nei casi ordinari – di acquisire meriti e visibilità da sfruttare poi al momento opportuno e – per coloro che riuscivano anche a raggiungere una posizione di leadership, sia pure in ambito locale – di gestire, in concreto, una consistente fetta di potere nei confronti degli altri colleghi.
Tutto ciò, naturalmente, a scapito di quei magistrati che non avevano tempo e voglia di dedicarsi a questo genere di attività (in genere perché impegnati a tempo pieno sul lavoro!); proprio quelli che, per usare le parole di Mario Almerighi, mettevano sul lavoro “…il massimo della professionalità e della responsabilità fino al rischio della vita…”.
La degenerazione del sistema correntizio si è così inevitabilmente riversata sul CSM che, sottoposto a condizionamenti dai quali non è mai riuscito ad affrancarsi, ha visto man mano attenuarsi nei fatti la funzione di massimo organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati e di difesa da ogni interferenza sull’esercizio delle funzioni giudiziarie, per trasformarsi spesso in una sorta di consiglio di amministrazione, governato da trattative ed accordi e destinato – in molti casi – ad avallare decisioni maturate altrove.
La responsabilità di tale progressiva involuzione deve necessariamente essere attribuita, benché in misura tra loro sensibilmente diversa, a tutte le componenti del CSM, e dunque anche a quelle che, se pure non hanno mancato – nel corso degli anni – di denunziato le contraddizioni del sistema non sono state poi capaci di tradurre tali denunzie in condotte concrete.
Ciò è avvenuto per effetto di fenomeni di trasformismo e di omologazione che hanno interessato tutti i gruppi associativi.
E’ avvenuto in particolare che le idee, costituenti il patrimonio iniziale del Movimento per la Giustizia e volte tra l’altro ad assegnare al CSM funzioni sia di garante istituzionale dell’indipendenza dei giudici, sia di promotore del loro forte impegno professionale indirizzato all’esercizio effettivo del controllo di legalità in ogni contesto (a partire da quello interno) ed alla conseguente tutela dei diritti individuali e collettivi dei cittadini, sono diventate man mano – almeno nominalmente – patrimonio comune dell’intera magistratura associata.
Ma la loro condivisione formale non è mai stata accompagnata da effettiva applicazione nei fatti, come, nel tempo, è risultato evidente dalle modalità di gestione, da parte del CSM, del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi.
Se, da una parte, vi è stata una fioritura sempre più dettagliata di circolari e direttive per rendere più personalizzate ed attendibili le valutazioni di professionalità, dall’altra tali valutazioni hanno comunque ricoperto, nella sostanza, un valore secondario rispetto agli accordi che – soprattutto per gli uffici di rilevanza nazionale, ma poi, a cascata, anche per quella di interesse più circoscritto – venivano di volta in volta stretti tra le componenti togate e laiche del Consiglio.
Le nomine sono così divenute sistematico oggetto di trattative, compromessi e reciproci scambi di favori, a cui talvolta non sono state estranee figure esterne al CSM ed all’Ordine Giudiziario ed appartenenti al potere politico od economico.
Tale situazione invero non ha tardato a divenire oggetto di polemiche e di denunzie a tutti i livelli, oltre che di interventi del Giudice Amministrativo, ma nonostante ciò il sistema spartitorio si è sempre più consolidato all’interno del CSM, con il consenso – esplicito o tacito – di tutte le componenti consiliari, comprese quelle minoritarie – come il Movimento per la Giustizia, in seguito confluito in “Area” – in una logica di compromesso, diretta a salvare il salvabile e a cercare almeno di ottenere la “riduzione del danno”.
E dunque il CSM, da organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati e di difesa da ogni interferenza sull’esercizio delle funzioni giudiziarie, è divenuto esso stesso veicolo del condizionamento esercitato dal sistema delle correnti sui singoli magistrati, posti di fronte alla constatazione che lo sviluppo della loro carriera non sarebbe dipeso tanto da obiettive valutazioni sulle loro qualità professionali e sui risultati conseguiti, quanto piuttosto dalla forza della corrente di appartenenza.
Le circostanze ed i dialoghi emersi dalle indagini sul “caso Palamara” ed ormai più volte riportati in ogni genere di pubblicazioni, sono risultate inequivocabili al riguardo.
Ed è stato così naturale – e le stesse indagini ne hanno data ampia conferma – che i gruppi di potere interni alla magistratura si incontrassero con omologhi gruppi esterni e concordassero con questi iniziative ed azioni comuni, dirette non solo ad orientare le nomine ma anche – in qualche caso – ad elaborare specifiche strategie di interferenza su indagini e processi in corso.
Le conseguenze di tutto ciò sono state devastanti; la crisi di credibilità ha investito pesantemente il CSM e la sua funzione di autogoverno nonché l’intero Ordine Giudiziario, la sua indipendenza, l’autorevolezza della sua azione e delle sue decisioni (e ciò nonostante l’impegno e la professionalità di tantissimi magistrati), soprattutto nei confronti di esponenti del potere politico o di altri poteri dello Stato.
È capitato così di leggere su un quotidiano a diffusione nazionale, a proposito di una richiesta di rinvio a giudizio, avanzata dal Procuratore della Repubblica di Palermo nei confronti dell’ex ministro dell’Interno, frasi come questa:
“…Facciamo finta di non vedere che la giustizia è nelle mani di una banda di sciagurati che purtroppo fanno capo (spero a sua insaputa) al presidente Mattarella in quanto capo del Csm che, come tale, almeno formalmente, dovrebbe avallare le loro decisioni…”.
Non è un caso però che un giudizio così indiscriminato e pesante – al limite del vilipendio – sull’intero Ordine Giudiziario sia stato espresso in riferimento ad un procedimento giudiziario riguardante un esponente politico di primo piano.
Ciò evidenzia infatti che gli effetti più gravi e devastanti caduti sulla magistratura hanno determinato un sensibile indebolimento – quantomeno sul piano del riconoscimento sociale – dell’azione di controllo di legalità che i magistrati sono chiamati istituzionalmente ad operare, soprattutto nei confronti del potere politico e rispetto al quale quest’ultimo si è sempre mostrato molto insofferente, soprattutto nei casi in cui la specifica attività di controllo si rivelava realmente incisiva ed efficace.
Tornano così un’altra volta eloquenti le parole di Mario Almerighi quando, nello stesso articolo prima ricordato, rilevava che “…gran parte delle forze politiche, supportate dai media, identificavano il magistrato modello nel c.d. giudice silente, impegnato a fare o a non fare, non importa, purché non costringesse le cronache ad occuparsi di fatti illeciti concernenti esponenti del potere politico o implicanti conseguenze sulla politica…”.
E difatti, fin dal primo momento in cui l’indipendenza della magistratura – costituzionalmente garantita – ha iniziato a tradursi in azione concreta, il potere politico ha rapidamente adottato le proprie contromisure per neutralizzarne i risultati, ed in proposito la storia delle notissime inchieste sui petroli, portate avanti nel 1974 da Mario Almerighi e dai suoi colleghi di Genova, appare particolarmente significativa.
Da allora, nel corso degli anni, sono stati molteplici gli strumenti e gli espedienti messi in campo per contrastare l’efficienza dell’azione giudiziaria e le sue autonome valutazioni.
Si è più volte cercata la via di riforme costituzionali dirette –sotto varie forme – a comprimerne l’indipendenza (come avveniva, all’epoca dell’articolo di Almerighi, con i progetti di riforma elaborati dalla Commissione Bicamerale che era stata in proposito istituita).
Ma questa strada non è mai stata percorsa fino in fondo perché è comunque prevalsa sempre la considerazione della impopolarità di norme che potessero limitare l’autonomia e l’operatività di una magistratura, ancora destinataria di una accettabile percentuale di considerazione pubblica.
Molto più produttiva, per i suoi effetti depotenzianti, è stata la soluzione – adottata, in un modo o nell’altro, da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni – di una legislazione ordinaria diretta costantemente a complicare ed appesantire l’azione giudiziaria, soprattutto quella inquirente (con il pretesto di un malinteso e strumentale “garantismo”) senza adeguati contrappesi sul piano della semplificazione degli adempimenti formali e dei tempi di trattazione dei procedimenti, così rendendo sempre meno realizzabile l’obiettivo di decisioni definitive adottate entro termini accettabili.
A sua volta, il sistema di interferenze esterne nella gestione delle nomine da parte del CSM, emerso in modo sistematico e desolante dal “caso Palamara”, ha portato – come si è visto prima – al totale discredito dell’autogoverno della magistratura pur se in concreto ha fortunatamente mantenuto una incidenza assai limitata sull’esercizio indipendente della giurisdizione da parte della generalità dei magistrati.
Ma oggi è proprio il discredito, strumentalmente esteso – attraverso una abile propaganda mediatica – dalla gestione del “palazzo” all’attività dei singoli giudici, a costituire lo strumento più forte in mano al potere per porre finalmente in atto il disegno di riduzione dell’autonomia costituzionale della magistratura.
E’ tornato quindi d’attualità, tra l’altro, il ricorrente progetto della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante che in realtà racchiude, attraverso l’utilizzo di una formula ipocrita e fuorviante, il chiaro disegno di sottoporre a controllo esterno l’attività del Pubblico Ministero (vero “spauracchio” della politica) laddove sarebbe al contrario necessario proteggerne e rafforzarne l’autonomia, la professionalità e l’autorevolezza sia al di fuori che al di dentro dello stesso Ordine Giudiziario.
Ma soprattutto il veleno prodotto dal caso Palamara, ed in particolare dalla diffusione indiscriminata, e spesso tendenziosa, delle conversazioni personali e telematiche intercettate, ha portato al crollo della fiducia collettiva verso l’azione della magistratura, che invero era già stata posta a dura prova da altre gravi vicende di abusi e corruzione nell’ambito giudiziario, venute di recente alla luce.
E poco conta riflettere sul fatto che, se sono venute alla luce tante condotte deplorevoli ed imbarazzanti per l’intera magistratura, ciò si deva soprattutto all’azione determinata e senza riguardi della magistratura inquirente (e indipendente!), che non ha mai ceduto a tentazioni di copertura corporativa per la quale “i panni sporchi si lavano in casa”!
E dunque si rende quanto mai necessario, se si vogliono mantenere accettabili livelli di controllo della legalità, che la magistratura risalga la china della fiducia e della considerazione pubblica, a partire dal recupero di credibilità da parte dell’organo di autogoverno.
Ne costituisce però un indispensabile presupposto l’adozione di adeguate riforme ordinamentali in grado di incidere sul funzionamento del CSM, a partire dal suo sistema elettorale, e che risultino fondate su una corretta ed onesta valutazione degli obiettivi da perseguire e dei migliori strumenti per raggiungerli, tenendo ben presente la deleteria esperienza della riforma del 2006, che – anziché migliorare – ha indiscutibilmente aggravato le criticità del sistema, sia in relazione ai criteri di elezione del Consiglio, sia a quelli di conferimento degli incarichi direttivi.
Ed a proposito di soluzioni controproducenti, tra queste rientrerebbe sicuramente – con riferimento al sistema elettorale – il ricorso, da più parti invocato, a forme totali o parziali di sorteggio che, a prescindere da chiari profili di incostituzionalità, rappresenterebbe una evidente e clamorosa manifestazione di sfiducia verso la capacità dei giudici di operare una designazione efficace dei propri rappresentanti, senza ottenere – d’altra parte – alcuna effettiva garanzia di miglioramento della autorevolezza e della funzionalità del sistema.
Appare invece necessario che i candidati possano essere direttamente conosciuti dall’elettorato per i loro connotati professionali e personali, con il passaggio dall’illogico attuale collegio unico nazionale alla suddivisione territoriale dei collegi stessi, e che un presupposto necessario per la candidatura si possa individuare nel possesso di un profilo professionale ineccepibile e verificabile.
Per quanto poi riguarda i criteri per l’assegnazione degli incarichi direttivi, la loro disciplina dovrebbe soprattutto orientarsi sul principio fissato dall’art. 107, co 3, della Costituzione, secondo il quale “I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”, e dunque sradicare la concezione stessa di carriera.
Gli incarichi direttivi andrebbero pertanto esclusivamente intesi come servizi temporanei, destinati a non potere essere ripetuto in altre sedi o in altre funzioni, se non dopo il decorso di un consistente intervallo di tempo.
I criteri di designazione dovrebbero poi basarsi fondamentalmente su elementi di valutazione obiettivi e documentabili, da attingere soprattutto dai dati provenienti dall’esercizio effettivo della giurisdizione (o, a secondo i casi, dell’attività d’indagine) e dai risultati conseguiti, con recupero – quantomeno parziale – del peso dell’anzianità e con ricorso ai rapporti informativi solo per la valutazione dei profili comportamentali e per l’apporto eventuale di elementi straordinari positivi o negativi.
È chiaro che si tratta di indicazioni quanto mai sommarie, ricavate dall’esperienza personale di chi scrive – ed ovviamente suscettibili di confronto ed approfondimento – che sono state mosse dall’intento di prospettare ipotesi di soluzioni per disinnescare lo strapotere delle correnti ed incoraggiare al contrario l’impegno sul campo di ogni magistrato.
Ma la migliore conclusione di queste disordinate riflessioni ad alta voce, riguardanti il momento molto difficile attualmente attraversato dalla magistratura – e dalla funzione giudiziaria della quale la magistratura è titolare – si ritrova ancora nelle parole di Mario Almerighi che, ricordando le prime battaglie politiche del Movimento, scriveva che “…chiedemmo consenso non per offrire assistenza, ma per garantire il rispetto delle regole, per chiedere ai colleghi maggiori sacrifici nell’impegno professionale e prospettando l’esistenza di una questione morale anche nella magistratura…”.
I fatti hanno purtroppo dimostrato, negli anni successivi, che a tale questione non è mai stato data l’indispensabile rilevanza, nemmeno dai gruppi in possesso della maggiore sensibilità a raccoglierla, e che oggi da questo tema si dovrà necessariamente ripartire per una effettiva risalita della china.

Ricordo di Mario Almerighi, in rapporto al caso Palamara

di Adelmo Manna

1939-2017

Il 24 marzo ricorre l’anniversario del decesso del giudice Mario Almerighi, nostro caro amico, e grande animatore anche di progetti culturali sulla giustizia, su cui sono confluite le Associazioni Isonomia e Sandro Pertini Presidente che ora stiamo gestendo sotto la presidenza dei conss. Vito D’Ambrosio e Leo Agueci.

Si ritiene di iniziare questo ricordo con una data ben precisa, il 16 aprile 1988, quando Mario Almerighi, assieme, fra gli altri, proprio a Leo Agueci e Vito D’Ambrosio, si staccarono da Unicost per formare un nuovo raggruppamento di magistrati, intitolato Movimento per la Giustizia.

Nell’ambito di coloro che diedero luogo al nuovo raggruppamento si annoveravano anche magistrati dal sottoscritto conosciuti personalmente come Luigi De Ficchy, Enrico Di Nicola, Franco Ionta, Maria Monteleone, Ciro Riviezzo ed Andrea Vardaro, mentre altri hanno raggiunto una notorietà nazionale anche a causa di tragici eventi, come il cons. Giovanni Falcone.

In questa situazione, siamo di fronte alla creazione delle c.d. correnti in magistratura, per cui la divisone dell’ANM – di cui Mario Almerighi è stato presidente, seppur per un sol giorno – appunto in correnti, è spesso stata liquidata sbrigativamente come “politicizzazione”[1]. Un’analisi più attenta, però, dimostra che la divisione in correnti è espressione del pluralismo del corpo giudiziario, ma non corrisponde affatto alla proiezione diretta dei partiti presenti sulla scena politica nazionale. Naturalmente si sono verificati tentativi di condizionamento che hanno percorso, nello scorrere degli anni, i diversi gruppi, ma non ne hanno mai segnato l’identità complessiva.

Ciò che, tuttavia, caratterizza la tensione immanente nell’associazionismo giudiziario è quella “tra chiusura corporativa e presa di coscienza del ruolo dell’istituzione giudiziaria nella società democratica”[2].

Quando, infatti, prevale il ripiegamento corporativo, operano le peggiori logiche correntizie come è indicato dalla pressione sul CSM per una gestione clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi[3].

Laddove, invece, prevalga la coscienza del ruolo istituzionale della magistratura, si determinano larghe convergenze, per cui, attraverso la dinamica fra queste due sponde di segno opposto, può leggersi la vicenda dell’associazionismo dagli anni ’80 del Secolo breve in poi.

Fatta questa doverosa precisazione, cerchiamo di operare un raffronto tra il presidente Almerighi -con tutto ciò che ha rappresentato nel corso degli anni – ed una figura decisamente opposta a lui, cioè il dott. Luca Palamara, che è stato dall’ANM espulso dalla magistratura ed è sotto processo penale presso il Tribunale di Perugia, ove il procuratore capo di quella città, cons. Raffaele Cantone, ha provveduto a contestare allo stesso Palamara anche i reati di corruzione per l’esercizio della funzione ed il traffico di influenze illecite, che a questo punto non riguardano più soltanto la sua vita privata, bensì proprio i rapporti clientelari da quest’ultimo intessuti con altri colleghi, in vista dell’ottenimento di incarichi da parte del CSM.

Siamo dell’avviso che l’unico punto che accomuna Mario Almerighi e Luca Palamara sia la presidenza dell’ANM, che tuttavia avvenne per soli tre giorni per Almerighi, in quanto il Nostro rilasciò un’intervista ad una giornalista, Maria Antonietta Calabrò del Corriere della Sera, mostrando di non gradire come possibile nomina a Ministro di grazia e giustizia il prof. Ortensio Zecchino, che era un associato di storia del diritto penale, preferendo a quest’ultimo il Ministro della giustizia uscente, cioè il prof. Giovanni Maria Flick. La giornalista, nonostante che avesse assolutamente assicurato Mario Almerighi di non pubblicare tale notizia, invece la pubblicò. Emerse, quindi, che il Nostro avrebbe travalicato la classica divisione dei poteri dello Stato, di montesquieuiana memoria, per cui fu costretto a dimettersi, anche su pressione di altri magistrati, in particolare di MD, e più in particolare ancora della dott.ssa Elena Paciotti, che fece poi una rapida carriera negli organismi giudiziari europei. Pur tuttavia si instaurò un giudizio civile perché fu chiesto alla giornalista del Corriere della Sera ed all’allora direttore Ferruccio De Bortoli di consegnare la bobina con la registrazione dell’intervista ma entrambi si rifiutarono di consegnarla ed alla fine, costretti dall’autorità giudiziaria, la consegnarono ma emerse da una perizia fonica effettuata sulla bobina stessa che era stata manomessa soprattutto per quanto riguarda il contenuto[4], per cui dopo i tradizionali tre gradi di giudizio nel 2012 la vicenda giudiziaria si concluse con la condanna di De Bortoli e Calabrò a 50 mila euro di danni per lesione grave all’identità personale di Almerighi.

Nonostante questo “incidente di percorso”, sicuramente Mario Almerighi ha rappresentato la coscienza del ruolo istituzionale della magistratura, tanto è vero che sul suo nome si sono verificate larghe convergenze. Il suo impegno, infatti, è sempre stato di carattere prevalentemente ideologico e comunque nell’interesse dell’intiera magistratura come potere dello Stato, tant’è che non si è mai piegato a logiche correntizie.

Risulta, invece, del tutto diversa la figura del dott. Luca Palamara, in quanto – a parte, ovviamente, il rispetto doveroso per la presunzione di innocenza, che deve valere anche per lui – è, al contrario, prevalso il ripiegamento corporativo e, quindi, le peggiori logiche correntizie, caratterizzate da una gestione clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi e della correlativa pressione sul CSM, dato che lo stesso Palamara è stato sia presidente dell’ANM che consigliere del CSM, carica quest’ultima rivestita, a suo tempo, anche dal presidente Almerighi.

Ciò che, tuttavia, più rileva a questo punto è la “difesa” operata dal dott. Palamara e condensata in un libro di grande successo editoriale, e non è un caso, giacché, ovviamente, un libro di tal fatta non può che scatenare la curiosità sia degli addetti ai lavori, che anche delle persone comuni. Il volume, elaborato sotto forma di intervista[5], costituisce, a nostro avviso, la difesa “pubblica” del Palamara, il quale utilizza un artifizio storico-dialettico, rappresentato, appunto, dal “Sistema”, ovverosia una entità superiore ai singoli soggetti in carne ed ossa, che tuttavia orienterebbe le scelte della maggioranza dei magistrati e quindi anche quella del Palamara, sia in senso positivo, sia per quest’ultimo, nel periodo più recente, anche in senso negativo. Va da sé che questo artifizio consente al Palamara medesimo di non fare nomi, se non in casi del tutto peculiari e, comunque, ristretti, di coloro che lui ha aiutato per ottenere determinate cariche, così da evitare, evidentemente in sede, prima disciplinare e, poi, processuale-penale, vendette e/o ritorsioni.

Ciò non toglie, però, che, almeno a nostro avviso, tale escamotage difensivo risulta alquanto fragile perché, in realtà, non appare sussistere questa sorta di “sistema” guidato non si sa da chi, e che invece assomiglia, se riandiamo proprio alla storia degli anni ’80 del secolo scorso, alla figura del “grande vecchio”, di craxiana memoria. Ebbene, a parte la sussistenza, o no, del c.d. sistema, comunque dietro il quale si muovono persone in carne ed ossa, non c’è dubbio che il dott. Palamara incarna un tipo di magistrato dove la gestione clientelare e lottizzatoria degli incarichi direttivi ha costituito l’obiettivo principale da perseguire nella sua carriera di magistrato e ciò dà, appunto, ragione al provvedimento dell’ANM di espulsione dello stesso dalla magistratura.

Mario Almerighi, invece, ha rappresentato l’opposto, nel senso che, seppure, ovviamente, ha cercato politicamente di orientare l’opinione dei suoi colleghi verso le sue idee, ciò lo ha fatto sicuramente per far prevalere la coscienza del ruolo istituzionale della magistratura nell’ambito di una dialettica sempre più proficua tra i poteri dello Stato. La dimostrazione di quanto stiamo sostenendo, la possiamo ricavare proprio da una vicenda giudiziaria emblematica del modus operandi del presidente Almerighi, cioè lo scandalo dei petroli[6], ove a Genova tre, come si definivano allora, “pretori d’assalto” – proprio perché intendevano incidere sulla realtà sociale con le loro decisioni giudiziarie e non, viceversa, chiudersi in modo tradizionale nella classica torre d’avorio – scoprirono, tramite la Guardia di Finanza, che la rarefazione del combustile era fittizia, giacché i contenitori di petrolio nel porto di Genova delle industrie petrolifere erano in realtà pieni, per cui la rarefazione sul mercato del petrolio era stata però “consentita” dal pagamento da parte delle principali industrie petrolifere, che venivano allora definite “le sette sorelle”, di tangenti ai principali esponenti dei partiti politici di allora. Dovendosi recare, a causa del relativo processo per corruzione, a Roma, i tre pretori, oltre ad Almerighi, anche Carlo Brusco e Adriano Sansa, presero un appuntamento nel 1974 con l’allora presidente della Camera dei Deputati, l’indimenticabile on. Sandro Pertini – che diventerà, successivamente, presidente della Repubblica nel 1978 – il quale, dopo averli ricevuti a Montecitorio, preferì parlare con loro nella lavanderia del Parlamento, per il rischio, poi dimostratosi veritiero, di essere controllati. Ebbene, in quella sede, il presidente Pertini li esortò ad andare avanti “costi quel che costi”, perché anche in Sandro Pertini, come nei tre pretori d’assalto, ha sempre prevalso la morale istituzionale, piuttosto che cedere ad imposizioni dall’alto o, peggio, essere contagiati da camarille di carattere politico.

È con queste riflessioni che intendiamo onorare la figura di Colui che per noi è sempre stato il presidente Almerighi nell’anniversario della sua prematura scomparsa.


[1] In argomento, per un quadro generale ed esaustivo, cfr. BRUTI LIBERATI E., Magistratura e società nell’età repubblicana, Bari-Roma. 2018, quivi 214 ss.

[2] BRUTI LIBERATI E., op. cit., 215.

[3] Cfr. ZAGREBELSKY V., Tendenze e problemi del Consiglio Superiore della Magistratura, in Quaderni costituzionali, 1983, n. 1, 128 ss.; SENESE S., Il Consiglio Superiore della Magistratura: difficoltà dell’autogoverno o difficoltà della democrazia?, in Questione giustizia, 1983, n. 43, 484 ss e, quivi, 503 ss..

[4] Sul giudizio civile in questione, cfr., in particolare, ZUPO G., “I morti apriranno gli occhi dei vivi”. Mario Almerighi e i veleni dei magistrati corrotti e corporativi, in Critica liberale, 2018, 47 ss.

[5] Alessandro SALLUSTI intervista Luca PALAMARA, Il Sistema-Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana, Milano, 2021, spec. 239 ss., con riferimento ad un paragrafo non a caso intitolato: “Così fan tutti”, che dimostra proprio che dietro il c.d. Sistema si muovono, ovviamente, individui in carne ed ossa, ma non appare affatto giustificata la frase “Così fan tutti” perché accomuna in una logica esclusivamente correntizia anche magistrati, e sono la maggior parte, che non hanno mai seguito tale logica spartitoria.

[6] Per la ricostruzione di un protagonista cfr., appunto, ALMERIGHI M., Petrolio e politica. Il padre di tutti gli scandali raccontato dal magistrato che lo scoprì, Roma, 2006; ID, Petrolio e politica. Oro nero, scandali e mazzette: la prima Tangentopoli italiana, Roma, 2014.

Prof. Avv. Adelmo Manna
Ord. dir. pen. c/o Università di Foggia

Contro… “corrente”

1939-2017

di Sergio Materia

Con questo scritto vogliamo ricordare Mario Almerighi. Splendido giudice e uomo sempre con la schiena dritta. Con lui, sotto la sua guida, abbiamo attraversato da magistrati gli anni ottanta e novanta. La crisi della giustizia diventava sempre più evidente e cercavamo risposte. Per noi, per fare del nostro lavoro qualcosa che riscattasse ai nostri stessi occhi l’esercizio di un mestiere che sa anche essere cattivo, freddo, burocratico. Ma soprattutto perché ci sentivamo insieme magistrati e cittadini e decidemmo che non ci bastava, non doveva bastarci, fare come meglio potevamo il nostro mestiere mentre fuori il sistema democratico era squassato dai lasciti del terrorismo, dai poteri occulti e dalla corruzione. E dal tirare a campare di molti che eravamo costretti a chiamare colleghi. Rivendicavamo il diritto di occuparci di politica, nel senso più alto e nobile della parola: lavorare e discutere del nostro lavoro con continua attenzione verso i principi costituzionali, verso gli interessi della collettività dei cittadini.
Mario capì, insieme a noi, che di questa profonda crisi la magistratura non era la soluzione ma una parte importante. La sua grande passione civile, per lui pari solo a quella per il mare, era una componente del suo essere magistrato. Non si poteva essere un buon magistrato senza alzare lo sguardo dalle carte e dai processi e senza preoccuparsi dell’impatto della giurisdizione sulla salute delle istituzioni e della democrazia. La magistratura associata già dalla metà degli anni settanta aveva sposato questa posizione, ma la spinta rinnovatrice si era persa ed era prevalsa una politica associativa fatta di chiusure, pavidità, convenienze, burocratismo, cecità, autotutela. In una parola, fatta di un corporativismo opaco, capace solo di difesa.
Due parole risuonano ancora, piagnucolose e insopportabili, usate in ogni occasione in cui venisse utile fare del vittimismo: “delegittimazione” e “sovraesposizione” (dei magistrati, ovviamente). Si predicavano a parole indipendenza e autonomia (dio solo sa quale sia la differenza) ma poi non si sapeva cosa farne se la parola d’ordine era, in sostanza, quella di non rischiare mai, di non disturbare il manovratore, di comportarsi sempre in modo da non provocare polemiche, interne ed esterne alla corporazione.
Era una situazione soffocante e Mario non solo lo capì presto ma lavorò per trovare una strada nuova. La via maestra era anzitutto quella di un radicalismo etico senza intolleranza e supponenza, e senza scelte aprioristiche di ordine ideologico. Unico riferimento era la Costituzione, troppo a lungo tradita anche tra i magistrati, dalla loro associazione e, per caduta, dal Consiglio Superiore che inevitabilmente, ma non controvoglia, era diretta espressione delle correnti interne alla corporazione.
Oggi è chiaro a tutti quali danni abbia fatto il correntismo. Nate negli anni settanta come opzioni di ordine culturale e politico (nel senso di scelte di fondo sul modo di essere della magistratura) presto le correnti erano diventate uno strumento per esercitare il potere interno alla corporazione. Appartenere in modo fedele ad una o all’altra equivaleva al potersi aspettare al momento opportuno il sostegno per la nomina in un posto direttivo o semidirettivo, o per andare in Cassazione.
Oggi il caso Palamara ha svelato a quali abissi di squallore il potere delle correnti abbia portato. Ma già allora era chiara, per chi volesse vedere, l’esistenza di un patto spartitorio tra le correnti. E poco male se i prescelti fossero spinti in alto dalle correnti (o dai loro esponenti più potenti, più forti elettoralmente) per i loro meriti professionali. Molto più spesso era la sola appartenenza ad un gruppo associativo a fare di un magistrato qualsiasi un candidato imbattibile per il posto cui ambiva. La volta dopo sarebbe toccato ad un’altra corrente scegliere la persona da promuovere. Il patto spartitorio diventava così vero e proprio voto di scambio.
L’importante era (ed è) che l’interessato non fosse incappato in qualche infortunio, che non fosse stato oggetto di polemica per qualche indagine o processo contro qualche personaggio politico o parapolitico. Insomma, che non fosse noto come davvero indipendente e libero da timori reverenziali. Anche perché a lungo il criterio dominante per essere promosso è stato la cosiddetta anzianità senza demerito, che fu applicato anche in occasione della scelta tra Antonino Meli e Giovanni Falcone per la carica di capo dell’ufficio Istruzione di Palermo alla fine degli anni ottanta. E quindi il consiglio implicito ai magistrati era: tenetevi alla larga dai processi che possono crearvi problemi, scegliete la soluzione più conservativa e più conveniente per voi. E così spesso i magistrati per sembrare equilibrati si trasformavano in equilibristi, anche a rischio del ridicolo. E i primi a fare il vuoto intorno a chi si “sovraesponeva” rischiando di “delegittimare” la magistratura erano proprio i colleghi, che volevano continuare a vivere tranquilli aspettando solo di invecchiare per poter finalmente arrivare a comandare qualcosa e per poter avere sulla porta del loro ufficio la scritta “Presidente” o “Procuratore della Repubblica”. Per poter avere la loro fetta di miserabile potere.
Il sistema era diretto dai capicorrente e dai loro stretti seguaci. Non solo negli uffici importanti ma anche in posti di provincia, e forse ancora di più, i capi degli uffici spesso erano personaggi di modestissima qualità professionale ma soprattutto etica e personale, ai quali della giustizia come la Costituzione la richiede importava il giusto, e che forse nemmeno ne capivano il significato.
E’ a tutto questo che Mario si ribellò. E su suo impulso nacque un nuovo gruppo di magistrati che provò a rovesciare la logica dell’appartenenza correntizia. A partire dalla apertura a chi non era magistrato: avvocati, intellettuali, insomma tutti coloro che cercavano non potere o protezione, ma un luogo di discussione, di scambio, di costruzione di una nuova cultura della giurisdizione. Un posto pulito, finalmente.
Si chiamò Movimento per la Giustizia, e già con il nome dimostrava di essere un gruppo aperto, non autoreferenziale ma pronto ad accogliere le opinioni e i contributi dei “laici”. Si scelse di restare all’interno dell’associazione nazionale magistrati per combatterne il degrado dall’interno. Ma dell’associazione vedevamo il limite intrinseco: tante posizioni politico/culturali molto distanti tra di loro non potevano (e non possono ancora oggi, come i fatti hanno dimostrato) che trovare l’unico loro possibile punto d’incontro nell’essere puro e semplice sindacato, quindi nell’essere corporazione, senza respiro e senza idealità che non fossero solo declamate con una retorica insopportabile. Senza fare mai niente che andasse nella direzione di elevare la professionalità e la affidabilità degli appartenenti, ed anzi coprendo sempre questo o quel magistrato che deragliava, e chiudendosi a riccio davanti alle critiche. Era sempre “delegittimazione”.
Dal punto di vista dei risultati elettorali il risultato fu decisamente buono e si riuscì a far eleggere al CSM eccellenti magistrati. Ma il generoso tentativo alla fine è fallito, ed è forse inevitabile che così fosse. Il gruppo ha perso per strada la sua carica innovativa, è diventato una corrente, pur restando immune dal degrado clientelare ed etico delle altre.
Le correnti tradizionali hanno vinto, e se oggi si è arrivati a proporre il sistema dell’estrazione a sorte per il Consiglio Superiore della Magistratura questo equivale alla presa d’atto, da una parte della magistratura, della incapacità del sistema di autoriformarsi, nei comportamenti prima ancora che nella forma.
E siamo arrivati oggi al caso Palamara e a quello che ha scoperchiato. Il caso Palamara non ha dimostrato in maniera evidente a tutti soltanto l’esistenza del sistema spartitorio tra le correnti e i loro vertici. Il caso Palamara (ma dovremmo aggiungere i nomi dei tanti magistrati coinvolti) svela una trama di relazioni illecite che sono all’attenzione della magistratura penale. Svela quello che era già chiarissimo da tanto tempo: l’esistenza di una questione morale nella magistratura. Prima di tutto il resto, fu questo aspetto a far insorgere Mario Almerighi e tutti noi che condividemmo le sue scelte. La cecità della magistratura associata era spregevole soprattutto su questo versante. Prima ancora che preparazione tecnica e professionale, scrivemmo e dicemmo tante volte, al magistrato si richiede un livello di etica personale quantomeno compatibile con il suo mestiere. Per la sua credibilità quando giudica il prossimo, per la tutela agli occhi dei cittadini della dignità della giustizia e delle istituzioni in generale. Perché così deve essere. E invece.
Quando un magistrato finiva sotto indagine o agli arresti per fatti di corruzione o per avere comunque abusato del suo ufficio, mai o quasi mai la reazione tra di noi era di sorpresa e di sconcerto. Noi dicevamo che i magistrati possono fare politica, nel senso alto che si è detto. Qualcuno invece la faceva davvero e nel senso peggiore, fiancheggiando l’uno o l’altro partito o uomo politico con iniziative strumentali. I cosiddetti magistrati “chiacchierati” erano tanti e noti a tutti, fuori e dentro la categoria. Di molti, soprattutto a Roma, era nota l’appartenenza politica, la “vicinanza” a questo o quell’uomo politico. Era noto come avessero pilotato, attraverso un impiego strumentale e intimidatorio dei loro poteri, l’esito di complicate e importanti vicende economico finanziarie.
Era nota la disponibilità alla corruzione.
Per Sergio Castellari, consulente di grandi imprese, ex direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali, trovato morto il 25 febbraio 1993 a Sacrofano vicino Roma, era stato richiesto il carcere da un pubblico ministero che cercava appigli per trasferire da Milano e Roma il processo Enimont. Castellari morendo, probabilmente suicida e sicuramente innocente rispetto alle cervellotiche imputazioni che lo riguardavano, lasciò una lettera: “Non posso accettare di essere inquisito da organi e persone di cui è nota l’ acquiescenza e la connivenza al sistema e la diretta e profonda corruzione”. Nota a tutti, effettivamente. Impossibile non lo fosse agli organi di autogoverno della magistratura che, dopo quell’episodio, promossero a capo di una Procura della Repubblica quel magistrato. Che poi fu arrestato per corruzione e patteggiò la pena dopo una lunghissima custodia cautelare, giustificata tra l’altro dagli artifici con i quali aveva fino ad allora occultato i notevolissimi proventi della corruzione.
E’ un episodio emblematico. La ricaduta finale del corporativismo che diventa cieco perché non vuole, non deve vedere. Che protegge tutti sempre, salvo qualche raro sprovveduto che esagera senza averne il potere e garantirsi le protezioni.
Ma lasciando da parte la vera e propria corruzione, certo è che in cialtroni e bellimbusti la corporazione ha abbondato. Tutti noi ne abbiamo visto all’opera qualcuno. E la conclusione era ed è netta: la capacità professionale conta fino ad un certo punto, la reputazione (quella reale, non quella che risultava dai fascicoli personali sempre pieni solo di elogi) non conta quasi niente. Molto di più conta l’essere cliente e vassallo di quello o quell’altro esponente o sottoesponente di una corrente.
Il solo parlare di una questione morale nella magistratura avrebbe dovuto provocare una ribellione collettiva da parte dei “colleghi” e delle correnti. E invece è sempre prevalsa una reazione di pura conservazione del sistema: Troncare, sopire, minimizzare. E per osmosi l’infezione si è diffusa, si è estesa ai più giovani, ed è stato il disastro. Si è fatto credere ai giovani che fare il giudice senza grilli per la testa seguendo la corrente (in tutti i sensi) è la via normale, quella giusta. E i giovani si sono adeguati volentieri, senza sapere e senza accorgersi che deve esserci una strada migliore. Un’ulteriore esempio di darwinismo sociale.
Per contagio da contatto ravvicinato, per invidia piccolo borghese, per imitazione, i mali della politica peggiore hanno raggiunto la magistratura. E oggi, appunto, il disastro è sotto gli occhi di tutti.
Ma per cosa, poi? Qualcuno ci ha guadagnato in denaro, in opportunità per sé o per i familiari (chi non si preoccupa che i figli trovino lavoro?). Qualcuno ha fatto carriera in politica.
Ma gli altri, tutti gli altri, hanno svenduto la propria dignità (bisogna averne, del resto) in cambio di quasi nulla. Palamara non si è preso con la forza la presidenza dell’ANM. Cosimo Ferri è stato il più votato alle elezioni dell’associazione del 2012 con 1199 voti, il numero più alto di sempre.
Insomma: l’autogoverno della magistratura descritto in costituzione era ed è il sistema migliore, ma quello che abbiamo conosciuto e visto all’opera è stato pessimo. Parafrasando Winston Churchill, l’autogoverno è il peggior sistema possibile, ma non ce n’è uno migliore. La Costituzione anche su questo è stata tradita, e non sarà facile rimediare.
Oggi è definitivamente chiaro che i danni non sono stati solo per qualche magistrato o per una giusta assegnazione di posti. Il danno, enorme, è stato per tutta la categoria. E a cadere, ovviamente, lo è stato per la qualità della giurisdizione e quindi per la collettività. Forse è ingiusto ed eccessivo parlare di complessiva inaffidabilità della magistratura, perché ci sono certamente persone che lavorano seriamente. Ma di sicuro la categoria oggi avrebbe bisogno di un profondo esame collettivo di coscienza che invece, come è evidente, è incapace di fare.

Di fronte a questo quadro oggi Mario Almerighi avrebbe l’amara ma grande soddisfazione di poter dire: perché non avete voluto vedere e ascoltare chi vi indicava il vero? E direbbe anche: la magistratura questa vergogna la merita tutta.
E’ stata compromessa la qualità della funzione giudiziaria che ha per i cittadini una valenza anche simbolica fondamentale. Una sentenza giusta è un omaggio alla democrazia, una ingiusta, anche riguardi un piccolo fatto di periferia, è una ferita che anche dopo anni resta aperta. Bisogna evitare in ogni modo che ad impersonare la giustizia siano persone men che limpide, mediocri, pronte al compromesso o a scegliere non la via più giusta ma la più comoda per se stessi. Forse i magistrati così non sono tanti, ma sono comunque troppi.
Scrivendo di Mario e di queste cose, anche per chi ha visto scadere il proprio tempo l’emozione è forte. Lui ha dimostrato anche da giudice cosa vuol dire la schiena dritta e l’onestà intellettuale, il coraggio di andare controcorrente in nome di un interesse collettivo che pochi con lui vollero vedere. Basta leggere la bellissima avventura processuale che Mario ha raccontato nel suo “Mistero di Stato”, un libro del 2010 sul processo per la morte dell’ispettore di polizia Samuele Donatoni durante il sequestro di Giuseppe Soffiantini.
Ecco: Mario era un grande giudice perché coglieva in modo naturale la drammaticità del giudicare, perché di un processo vedeva gli angoli più nascosti e più scomodi. Di un processo, come della realtà politico istituzionale nella quale viveva, si faceva carico fino in fondo come il giudice deve sempre fare, non cercando mai le soluzioni più comode ma quelle più giuste, nei limiti in cui la vera e originaria giustizia riesce ad entrare in un’aula di giustizia. Ma questo è un discorso più grande di noi.

Il degrado dell’ANM e dell’autogoverno nel suo complesso non ha soltanto determinato guasti interni alla corporazione, ma si è esteso per contagio a tutti gli aspetti della giurisdizione. E oggi, anche se per incanto i mali dell’ANM fossero sanati di un colpo, ci troveremmo di fronte ad un panorama di macerie e di questioni irrisolte.
Come Mario Almerighi sosteneva negli anni ottanta e novanta, mentre le correnti si dedicavano solo alle loro operazioni di bassa cucina nessuno si preoccupava di indirizzare la magistratura e la giustizia verso l’attuazione dei principi costituzionali. Nessuno spiegava ai magistrati, né prima né dopo il concorso, cosa dovesse significare esserlo e lavorare in nome del popolo italiano. Nessuna politica di indirizzo, tutto era ed è lasciato alla libera interpretazione del singolo. E dunque tutto era ed è consentito quanto al modo di essere, prima ancora che di fare ed operare dei magistrati. Sarebbe bastato ricordare Piero Calamandrei o anche Dante Troisi, e insegnare quelle riflessioni prima ancora delle regole del diritto. E poi valutare i magistrati anche in base al modo di esserlo e non solo in base a singoli episodi.
Mario sosteneva che dovesse essere il Consiglio Superiore, quale vertice del sistema di autogoverno, a farsi scuola di vita professionale per i magistrati, a dettare non certo regole rigide di condotta ma linee guida. Una corporazione che non vuole o non è capace di ragionare sul proprio modo di essere e dover essere è cieca e sorda e finisce per immiserirsi.
Ma il concetto di autonomia e di indipendenza è stato distorto e strumentalizzato a tal punto che anche discutere di questi temi era giudicato inammissibile per lesa maestà. E così, diceva Mario, l’indipendenza è diventata arbitrio e ognuno vive il mestiere del giudice come ritiene meglio o, peggio, come gli conviene. Ed è successo che autentici malfattori (a Roma gli esempi potrebbero essere tanti) hanno “liberamente” interpretato il loro ruolo facendone un supporto ai propri o – peggio – altrui disegni di potere, nel silenzio complice degli organi del cosiddetto autogoverno.
Certo, per una utile discussione su questi aspetti un utile interlocutore era la politica. Ma da quel fronte non c’era – né allora né in seguito – nessuna intenzione o forse nessuna capacità di affrontare il tema. E’ sempre stato molto più conveniente avere a che fare con una magistratura tutto sommato non autorevole, utilizzandone le contraddizioni, i contrasti interni e gli insuccessi. E screditandola anche attraverso i media, anche trovando il modo di ritornare con enfasi su casi di cronaca già decisi in via definitiva ma insinuando il dubbio di errori giudiziari.
Per tutto questo è sempre mancata una vera proposta politica in tema di giustizia. Come sappiamo si è inseguita l’emergenza, con interventi raffazzonati sui codici soprattutto per rimediare alla interminabile durata dei processi civili e penali.
Ma così ogni magistrato è rimasto solo, se ne ha voglia e ne è capace, a ragionare sul senso del suo mestiere. Non è facile, non solo perché la materia è sostanzialmente un’intrusa e “non rientra nel programma”. Però se non lo fai il senso del mestiere di giudice si esaurisce nell’atto stesso di farlo, e questo vuol dire alienazione.
Questo tra l’altro comporta una inversione di senso per cui il diritto diventa non più una sovrastruttura ma un “a priori”. La realtà è letta in base al diritto, il giudizio sui fatti deve partire (secondo il popolo italiano?) anzitutto da una valutazione giuridica. Le altre letture della realtà sono profane. In barba, tra l’altro, al principio di tipicità degli illeciti penali. Di qui tanti “teoremi” giudiziari che sono tali, prima ancora che sul piano della prova, su quello dell’interpretazione storica e giudiziaria e del fatto. Una dimostrazione di hybris oltre che di ignoranza. E infatti il pubblico ministero che di volta in volta è autore e promotore del teorema (nel senso che ora si è detto) verso chi dubita rivolge tutta la sua sarcastica supponenza e il suo implicito disprezzo, se non addirittura l’accusa di essere dalla parte del male. Non solo fino all’immancabile crollo giudiziario della sua creatura, ma anche dopo.
Era a tutto questo che la proposta di Mario Almerighi e dei suoi compagni di strada intendeva ovviare. Senza aspettative miracolistiche, ma con l’intenzione di fare dei magistrati una categoria con una propria cultura collettiva e una propria coscienza critica.
Non era un compito facile. La base di partenza non era (e non è) favorevole. La crescita della consapevolezza di sé viene dal confronto, ma il giudice non è abituato a mettersi in discussione e comunque questo non è previsto dalla sua collocazione istituzionale.
Il lavoro del giudice non prevede un confronto dialettico né con la realtà né con gli altri, salvo i casi di decisione collegiale che però riguarda solo il singolo caso; non è un lavoro che preveda dialogo, confronto e tanto meno, e soprattutto, verifiche esterne all’esame del singolo caso. E’ un lavoro ex cathedra, perché così deve essere. Se è così, il lavoro del giudice rischia di tenerlo per un’intera vita professionale in un equivoco sulle proprie capacità, credibilità, affidabilità, serietà.
E rischia di generare nella persona del giudice una lunga illusione e molta presunzione. Un po’ diverso forse è per il pubblico ministero, che deve almeno confrontarsi anche se non dialogare.
Ecco perché solo collettivamente i magistrati potrebbero, e le loro istituzione dovrebbero, individuare sedi e modi per una discussione interna alla corporazione. In fondo l’attività giudiziaria è parte delle politiche sociali, nel senso che è una delle sedi privilegiate per l’affermazione del principio di uguaglianza come è previsto dal secondo comma dell’art. 3 della costituzione. Questo compito spetterebbe all’ ANM, che pretende di non essere semplice sindacato. Ma soprattutto al CSM, invece sordo e incapace.
Una discussione del genere servirebbe anche come necessaria base di partenza dei dibattiti sulle riforme ordinamentali: che cosa vogliamo dalla giustizia? Che processi vogliamo, e dunque che giudici vogliamo? Domande che sembrano ovvie ma che nessuno si fa.
Si può fare anche un’altra considerazione, e non è detto che sia solo una boutade. Tutti consideriamo ovvio che il lavoro dei giudici sia orientato dalla giurisprudenza, che dà punti di riferimento per come interpretare le leggi. Nessuna imposizione, ma indicazioni su come fare. Non sarebbe altrettanto normale che l’organo di autogoverno desse indicazioni sul come essere dei giudici? E non basta la giurisprudenza disciplinare, che dice solo cosa “non” fare e indirettamente come non essere. E lo dice dopo.
Una vera e profonda riforma della giustizia non può essere solo riforma dei codici o dell’Ordinamento giudiziario o del CSM. Il caso Palamara è la riprova che bisogna risanare andando in profondità, affidandosi a giuristi di altissimo livello ma anche a studiosi delle istituzioni politiche.
Quella di Mario e dei suoi compagni di strada sembrò allora una bestemmia. E’ vero, erano anni in cui la magistratura era sotto attacco, la politica peggiore e i poteri occulti e criminali lavoravano per liberarsi del controllo giudiziario, ma proprio per questo sarebbe stato necessario un salto di qualità sul piano culturale e istituzionale. Invece non si andò oltre la solita reazione corporativa. Non si volle vedere che i migliori alleati dei poteri occulti e criminali che attaccavano le istituzioni erano proprio nei palazzi di giustizia. E siamo arrivati ad oggi.